Sul vile furto di un bene piratesco ad opera di malvagi emissari coloniali

Per dovere di cronaca mi trovo costretto a riportare di un increscioso episodio che mi è occorso pochi giorni fa. Episodio che più che sofferenza mi ha causato un rancore ancora maggiore verso la già mal sopportata classe dei burocrati coloniali, gente malvagia ed infida, che usa mezzi furfanteschi tali da apparire sleali anche al più ruvido dei bucanieri.

 

 

Andiamo con ordine. Dovete sapere che per procurarmi di che vivere mi trovo durante il giorno a prestare servizio presso un’officina di paese. Sono quello che si occupa di far funzionare le comunicazioni di informazioni interne ed esterne attraverso l’uso di macchine costruite da altre aziende con dei derivati della silice.


 

La storia di cui voglio parlarvi ha inizio ormai circa un mese fa, quando il mio collega ed amico mi avverte che avremmo ricevuto la visita di due emissari coloniali. Il mio collega si sofferma anche a sottolineare bene l’importanza di tali figuri: non sono semplici visitatori, ma nientemeno che due inviati dal ministero, che intendono controllare che tutto quello che noi svolgiamo avvenga nel pieno rispetto delle regole da loro imposte. E nel caso venga trovato qualcosa che non incontri i loro gusti, ci inviteranno a correggere il nostro operato attraverso corpose sanzioni pecuniarie. Da tanti anni pare non avessero trovato una buona occasione per questa visita di cortesia, grosso modo per una generazione. Era proprio ora che tornassero a farci apprezzare l’amorevole e materna presenza del nostro stato anche qui nei freddi confini nordici dell’impero, perché va bene che siamo bravi e volenterosi, ma in trent’anni anche il più motivato ed ispirato dei capitani può perdere, seppur di poco, la Trebisonda.

 

I nostri emissari però fanno precedere il loro arrivo da una richiesta: il mio collega mi rende noto che, una volta giunti in luogo, è il caso che oltre al canonico macchinario per la generazione di fogli scritti, gli venga fatto trovare anche uno di quegli strumenti portatili che vengono usati per produrre, modificare e direzionare tali stampati. La procedura mi è nuova: so che in genere la prassi vuole che il visitatore, chiunque esso sia, porti con sé il suo macchinario portatile. Il nome stesso ne suggerisce la trasportabilità. Spesso poi il suo nome viene accompagnato anche dal termine “personale”, e non a caso: tale è l’affezione e la personalizzazione dovuta all’utilizzo dello strumento, che in poco tempo ogni individuo tende a considerare “personale” il proprio apparecchio, e non vede di buon occhio l’uso dello stesso da parte di altri personaggi. Converrete con me che quando mi è stato chiesto di fornire questo oggetto all’emissario, e che quindi mi sarei privato del mio per un tempo indefinito, la cosa non mi ha entusiasmato. Ma tant’è, prepariamo la macchina e facciamo in modo che nulla sia abbia a che dire sul nostro operato.

 

Puntuali come le cattive notizie arrivano due di questi inviati. Si impossessano subito del mio apparecchio. Io sapendo che queste persone sono spesso vettori di scocciature e cattive notizie, decido di portare a termine un lavoretto per lungo tempo rimandato, studiatamente presso il più remoto deposito merci della provincia di proprietà del mio padrone. Veloce come il percorso me lo consente mi metto in marcia, già sapendo che la relativa pace e tranquillità di cui avrei goduto quella mattina sarebbe stata quanto mai effimera, e che dal pomeriggio seguente non avrei più avuto altro che magagne e scocciature dai già citati signori del ministero.

 

E così è: mentre sto armeggiando nella mia remota posizione con macchinari più fisici che intellettuali, già mi giunge la richiesta della mia presenza nella sede principale. Non viene nemmeno citato il motivo, ma semplicemente il mio ruolo:

 

– E’ richiesto l’uomo che governa agli strumenti di comunicazione e di informazione!

 

Purtroppo sono io. Prolungo per quello che posso la mia opera locale, e già nel primo pomeriggio mi appresto ad andare incontro all’ignoto e fatale destino, chiedendomi quale cosa tanto grave possa richiedere la mia esclusiva presenza.

 

Nel pomeriggio sono di nuovo nella sede principale. I miei coscienziosi colleghi mi rinnovano la richiesta dei due emissari, e quindi mi armo di coraggio per varcare le soglie dell’alloggio dove i due signori sono stati stipati.

 

La stanza è minuta, ma già trabocca di grossi tomi e pile di carta stampata, sui mobili, per terra agli angoli della stanza e sul grosso tavolaccio centrale. Oltre a ciò, sul tavolo stesso c’è ovviamente il mio spaventato macchinario portatile. Girato di fronte a lui un suo simile, reso arrogante dalla volgare presenza di una scritta stampata sul dorso, che ne certifica la proprietà del ministero stesso. Tra i due strumenti e due pile di carta c’è anche il mio macchinario stampatore, nemmeno lui felicissimo di essere stato abbandonato nelle mani di siffatti personaggi. Ai lati lunghi del tavolo appoggiano le loro natiche su delle sedie di vimini i due temuti signori. Un uomo ed una donna, che potrebbero anche sembrare delle persone normali, forse addirittura modeste nell’aspetto, non fosse altro che il titolo con cui entrano in ogni opificio trasforma la loro discreta presenza fisica in quella di giganti onnipotenti. La mia collega mi segue immediatamente, forse per verificare che mi comportassi in maniera consona almeno alla prima visita. Con sé porta un vassoio per ristorare il loro dopopranzo con il miglior caffè che la nostra cambusa è in grado di offrire.

 

Dopo le presentazioni di rito, permeate da una ambigua cordialità, finalmente vengo reso partecipe del problema che ha richiesto la mia presenza urgente in quel luogo. Pare che tutti gli sforzi fatti dal nostro signore per dare corpo cartaceo a degli archivi presenti nel macchinario che gli abbiamo fornito sono stati vani. Per quanto lui si ostini a chiedere allo strumento di parlare con la stampatrice, i due si ignorano bellamente. E già si scusa per avermi dovuto chiamare e disturbarmi, ma nel contempo fa delle lievi e garbate insinuazioni sulla qualità degli apparecchi che gli abbiamo fornito.

 

Come spesso accade, il problema in questi casi è abbastanza banale, e lo risolvo rapidamente. E pure come spesso accade riscuoto grande ammirazione, come se invece che aver risolto il guaio attingendo alla mia esperienza di tecnico, mi fossi rivolto a delle forze arcane, facendo questo di me una sorta di mago o stregone. E così vengo subito definito, ed avendo certificato come io sia in possesso di doti soprannaturali che mi semplificano qualsiasi tipo di problema, il nostro amabile signore si sente subito autorizzato ad affibbiarmi degli incarichi di ben altra entità. Sono un mago, e quindi posso fare tutto quanto ed in tempi ristrettissimi. Quindi posso anche fare dei lavori di una noia mortale, oserei dire da segretaria, di cui sarebbe capacissimo lui, se solo ne avesse voglia.

 

Già la seconda visita però è accompagnata dalle più esplicite lamentele riguardo al macchinario portatile che gli abbiamo fornito per lavorare. Pare che non incontri il suo gusto, perché lui è abituato a quell’altra versione, quella prima. Da me si attende conferme che la versione precedente, quella da lui amata, è migliore. Mio malgrado mi ritrovo a dover elencare i pregi del vecchio rispetto al nuovo.

 

La sua avversione per lo strumento si manifesta chiaramente ed in modo inequivocabile il giorno seguente, quando il mio apparecchio si rifiuta di comunicare attraverso l’aria. E’ chiaramente un sintomo di stress, e mi sento in colpa di averlo abbandonato in queste mani. Cerco di rincuorarlo come posso, ma di fronte alla sua ostinazione mi vedo costretto a ricorrere alla vecchia comunicazione via cavo. Vado nella stanza più vicina fornita di un allaccio ed inserisco un capo del mio cavo chilometrico. Attraverso quindi il corridoio sbobinando la matassa, e quindi rimetto il mio macchinario nella possibilità di lavorare, seppur controvoglia.

 

Ma questo sistema non piace all’emissario, e i suoi dubbi sulla bontà dei nostri strumenti sembrano essere confermati dalla presenza di questa flebo che pompa le sue informazioni attraversa il corridoio, percorrendo una buona parte della sua stanza. Il giorno seguente giunge col suo apparecchio personale, che a quanto pare possedeva ma che per qualche oscuro motivo ha preferito da principio non usare. La conseguente richiesta è ovviamente che anche questo apparecchio possa parlare con il generatore di carta scritta. Risolto anche questo problema tecnico, mi viene fatto notare gentilmente che ancora sono in attesa che venga svolta la loro ultima richiesta. Mi scuso e mi congedo, per procedere all’opera il più rapidamente possibile.

 

E così la mia permanenza in officina diventa un continuo assecondare le loro richieste. E questo non solo per me, ma per gran parte dei miei colleghi. I due garbati visitatori sembrano godere di una voracità di informazioni senza pari, e ogni volta che mi accingo a varcare la soglia della loro stanza, mi ritrovo a passare qualche minuto in coda in compagnia di altre persone, tutti in attesa di essere ricevuti a esporre i nostri lavori.

 

Lavoro dopo lavoro, finalmente sembra che i signori abbiano trovato soddisfazione, e stiano per lasciare i nostri lidi. Lo capisco dal fatto che la richiesta che mi fanno questa volta è quella di aiutarli a far calzare una enorme tabella contenente delle lunghe serie orizzontali di dati nel loro foglio di rapporto, che malauguratamente non può essere altro che stretto e verticale. Di fronte all’impossibilità geometrica della cosa, forse galvanizzato che le parole “rapporto finale” mi fanno proprio pensare alla fine delle nostre reciproche frequentazioni, azzardo una proposta veramente idiota, ovvero che l’unico modo per far entrare la tabellona orizzontale nel rapporto verticale sia quello di dividerla in grossi pezzi verticali. Lasciando poi al lettore del rapporto la gioia di riassociare le righe mentalmente da un trancio all’altro del documento.

 

Durante questa ultima surreale conversione mi scappa l’occhio su di un particolare che mai avrei voluto vedere: se il mio apparecchio portatile era ormai ripiegato da due settimane, in punizione, in un angolo del tavolo, noto con orrore che il suo scatolotto di alimentazione è finito per non so quale motivo in dote al suo collega ministeriale, che ne fa uso garrulo con manifestazioni di gaie lucine, mentre io gli passo le istruzioni per sventrare la citata tabella sotto la compiaciuta supervisione dell’emissario. Se ho notato che la cassetta di alimentazione è mia, è per un semplice quanto inconfutabile motivo: una vistosa etichetta da me firmata e datata, sui cui troneggia centrale in Sacro Pesce Pirata Pastafariano. Da non molto tempo infatti ho preso la saggia abitudine di marchiare ogni strumentazione che abbia un valore maggiore di zero unito ad una superficie piana e sufficientemente ampia. Ben conscio della volatilità delle cassette di alimentazione degli apparecchi portatili, ho bollato con la Sacra Etichetta non solo il macchinario, ma anche il più minuto scatolotto da cui trae il nutrimento necessario per operare in continuità.

Questa è la foto di uno di questi scatolotti di nutrimento, con una etichetta del tutto simile a quella citata

 

Da qui l’orrore alla vista dello stesso collegato ad un altro macchinario. Ed anche lo sconcerto: da che opero nel mio settore, a memoria mia è estremante raro che due diversi apparecchi portatili, seppure usciti dalla stessa fabbrica, possano operare con lo stesso scatolotto di nutrimento. Questo perché i malvagi produttori di questi macchinari si ingegnano a creare spinotti sempre diversi, e a far operare gli stessi apparecchi con livelli di alimentazione pure differenti tra loro. Il tutto per il misterioso ed insano disegno di rendere altamente remota la possibilità che lo stesso scatolotto possa operare con successo con due macchinari, seppure dello stesso costruttore. Ed ecco di fronte ai miei occhi la prova terribile che se questo episodio rarissimo doveva mai accadere, sarebbe accaduto proprio nel caso in cui non doveva, ed il più sciagurato.

 

Non sottolineo la questione al gentile funzionario. Forse per non urtare la sua sensibilità con una domanda indiscreta che avrebbe potuto mettere in dubbio il suo onesto e irreprensibile operato di attento emissario del ministero. Che figura avrei fatto, esponendo quella che poteva sembrare come una forma di prevenzione al furto, quando la mia etichetta pastafariana timbrata e firmata troneggiava con tanta evidenza sopra la faccia superiore dello scatolotto? Il mio sarebbe stato un atteggiamento decisamente poco elegante, se non ostile.

 

Inoltre c’è anche un secondo motivo, anche più sottile. Sotto sotto mai avrei voluto che una bazzecola come questa potesse prolungare anche solo di pochi minuti la permanenza dei due dottori presso la nostra officina. Sarà, ma mentre scendo le scale per tornare nella mia stanza, non mi sento comunque tanto tranquillo.

 

Il ritorno dei due signori prende corpo solamente il giorno dopo. Pare che qui non abbiamo più niente da fare. Il mio collega mi previene, portando lui stesso nella mia stanza le mie apparecchiature. Quando mi accorgo che manga la scatola di alimentazione, non mi metto nemmeno a cercarla troppo in giro. Alla prima occasione che vedo il mio collega, gli pongo la domanda, senza sperarci troppo, se avesse trovato anche il mio scatolotto. No, non l’ha trovato. Nemmeno il tempo di dirgli di lasciar perdere, e lui generosamente torna sul luogo del delitto, per dedicare una ricerca più accurata dello stesso. Niente da fare: l’oggetto è sparito.

 

A questo punto gli spiego perché le mie speranze erano già poche prima ancora che lui mi portasse gli altri due macchinari. Lui comprende. Gli pongo la domanda ovvia e stupida, se è il caso o meno di contattare l’ufficiale ladro. No, mi dice, non tiriamoci la zappa sui piedi.

 

La storia finisce qui. Con un onesto funzionario del ministero, che nell’esercizio delle sue funzioni si è trovato nella condizione di impossessarsi di un oggetto chiaramente non suo, e non si è lasciato sfuggire l’occasione. Dicesi furto. Ed è un reato, per le leggi di quello stato di cui il nostro personaggio si fa garante con la sua assidua ed ingombrante presenza nella nostra piccola realtà privata. Credo sia anche peccato per diverse religioni, vedasi l’articolo sette di quella che con tutta facilità è proprio la sua, di religione, dato che è tutt’ora quella più ampiamente diffusa sul nostro territorio. Se fosse stato pastafariano, avrebbe certamente riconosciuto il Pesce Pirata, e dopo un piacevole scambio di urlacci pirateschi e pacche sulle spalle avremmo concordato tempo e luogo per una sana bevuta serale in una taverna di paese. Ma così non è stato.

 

Ho già provveduto a rimpiazzare il bene piratesco rubato ordinandone un suo gemello allo stesso fornitore del primo. Neanche a dirlo, dopo la mia prima lettera con la richiesta di offerta, il fornitore deve richiamarmi per una serie di domande inquisitorie su come dovesse essere fatto di preciso tale prodotto. Accidenti, siamo al colmo: pare che lo stesso identico macchinario portatile possa avere modelli diversi di scatolotti di alimentazione, ovviamente di tipo profondamente diverso tra loro. Da non credere.

 

Rimangono da tutto ciò un dubbio ed una speranza. Il dubbio è se l’abile furfante si sia accorto o no del fatto che si stava appropriando di qualcosa che non era suo. E di sicuro che se non se ne è accorto subito, cosa comunque difficile, se ne sarà comunque accorto dopo. Ladro conscio o inconscio, sempre ladro è, e la presunta innocenza durante l’atto del furto è una debole attenuante, una volta maturata la consapevolezza del gesto. La speranza è quella che o il mio o il suo dio prendano dei provvedimenti, e non dopo morte, come è prassi di entrambe le divinità, ma già in vita. Il suo dio perché così sta scritto: “settimo: non rubare”, e se si lasciasse scappare una punizione terrena come ai suoi vecchi tempi, non sarebbe certo male. Il Mio Dio è certo meno rancoroso e vendicativo, ma in questo caso c’è di mezzo un oggetto Benedetto da una Sacra Etichetta che è caduto in mani nemiche. Sarebbe giusto che l’oggetto stesso venga purificato con un piccolo incendio a seguito di esplosione. Magari causati proprio dalla non perfetta compatibilità tra i due strumenti. E se poi l’episodio dovesse danneggiare non solo lo scatolotto di alimentazione suicida, ma anche il parassita macchinario portatile collegato, non credo che sarebbe proprio malaccio.

 

Saluti rancorosi, il devoto Alberto

Abbordaggio di cortesia di un pirata pastafariano su hastalapasta.org

Per mille sughi, chi l’avrebbe mai detto? Pare che siamo usciti dal piacevole porticciolo dove navigavamo a vista dall’inizio della nostra avventura di questa primavera, per avventurarci finalmente nel tumultuoso mare dei Caraibi, dove abbordaggi, avventure e scelleratezze sono all’ordine del giorno. A darci il simbolico benvenuto è stato un nuovo amico pirata, il reverendo Giorgio de Angelis, che lanciando la rituale bottiglia con messaggio a bordo della nostra goletta ha iniziato le rituali schermaglie piratesche per stabilire una lunga e vigorosa fratellanza.

 

Il reverendo ci ha fornito subito le mappe piratesche dei possessi del suo gruppo, invitandoci ad entrare a far parte della loro ciurma. Abbiamo declinato l’invito, spiegando che preferiamo navigare ancora per conto nostro, ispirandoci ad un sacro principio di sana anarchia piratesca, ma ciò non toglie che abbiamo gettato le basi di una duratura amicizia.

 

Il reverendo Giorgio de Angelis, conosciuto come Al Zarkawi sui lidi di Facebook, si è fatto portavoce di una associazione pastafariana da lui democraticamente presieduta, la Chiesa Pastafariana Italiana. Tanti siti fanno capo a questa associazione. Quello principale credo sia questo, ma c’è anche questo. E poi hanno anche una associazione culturale, questa qui. Bravi.

 

Basta chiacchiere! Ho chiesto al reverendo di poter pubblicare il nostro scambio epistolare, e lui mi ha detto che i pirati sono pirati, e ci mancherebbe altro che chiedano per avere un permesso. Bene! Ecco qui di seguito tutto quanto.

 

Hasta la pasta!

 

il capitano Kidd seppellisce il suo gospel pastafariano


 

Ramen Fratelli di hastalapasta. Un sonoro Arrgh per il capitano di questo sito. Noi siamo un gruppo di Pirati Pastafariani con molte pagine diverse su FB (pirati pastafariani romani, pastafarian rock, priorato pastafariano alla trapanese, pastafariani lombardi, pirati pastafariani palermitani eccetera e facciamo tutti capo alla Chiesa Pastafariana Italiana (pagina FB: https://www.facebook.com/pages/Chiesa-Pastafariana-Italiana/286796408016028 ) sito internet www.chiesapastafarianaitaliana.itpastafariani.net – associazione Apsocus quest’ultima è una associazione culturale e sportiva pastafariana. Un nostro fratello vi ha scovati sul web e ha proposto di contattarvi. Io sono il Supremo Capo della Chiesa Pastafariana Italiana (CPI) attualmente in carica, il Pappa viene eletto ogni anno. Vi auguro che il PSV – Prodigioso Spaghetto Volante guardi con benevolenza i vostri sughi e attendo un piratesco segno di risposta da voi. RAMEN! Reverendo Giorgio De Angelis FB: Al Zarka!

wi.

 

 

RAmen, fratello di pasta! Sono il devoto Alberto, attuale timoniere della barca pastafariana di hastalapasta.org . Già sapevo della presenza di numerosi siti pastafariani più vecchi e seri del nostro, che è nato solamente questa primavera. Fa piacere sapere che sono attivi e attenti a chi arriva e a chi se ne va nel grande mare dei Caraibi.

 

Due parole su di noi. Nasciamo come tre amici compaesani a Gussago, piccolo paesotto del bresciano. Uno di noi è da tempo a Nairobi a fare figli, mezze maratone e anche a lavorare in una onlus e in una ONG. Gli altri due si ritrovano a regolarmente ad onorare il venerdì tra loro (e a volte anche altri giorni) da soli con amici simpatizzanti.

 

Chi ci ha convinto a far questo sito? Ovviamente Sua Sugosità! Ma anche i meravigliosi esponenti della chiesa cattolica, e i loro rappresentanti italiani della CEI. Quando uno è pastafariano non può esimersi dal diffondere il Verbo. Siamo pochi, felici ed in terra straniera, quindi la diffusione della Spaghettosa Parola è tassativa.

 

All’inizio ovviamente l’idea di buttarci nella politica religiosa era cosa forte, con autoproclamazioni a cariche religiose altisonanti o pretese di otto per mille a scopo di acquisto di piratesche imbarcazioni. Col tempo però le nostre idee sono un po’ cambiate. Complice anche la frequentazione mia e della mia dolce metà ad una cerimonia valdese quest’agosto, vedi articolo sul sito. Lì ho capito che la religione deve partire dal basso e non dall’alto. Siamo profondamente convinti di questo, anche se non abbiamo ben chiaro cosa voglia dire. Quindi ci limitiamo a scrivere una serie di articoli vagamente pastafariani, in attesa di essere ispirati da un Suo Tocco Spaghettoso che ci indichi una nuova direzione. E prima o poi vedremo anche di rendere un po’ più corposa la parte del sito dedicata alla religione. E magari di sistemarne un poco la grafica.

 

Abbiamo un po’ di progetti, ma per adesso sono ancora tutti allo stadio di idea da bar. E poi si sa che le email troppo lunghe difficilmente vengono lette fino in fondo.

 

Che il vostro boccale di birra sempre pieno e la vostra amatriciana sempre sugosa!

 

Devotamente, Alberto

 

 

Non fatevi scoraggiare dal fatto che siete in pochi, diffondete il verbo, collaborate con noi, presto saremo milioni e non pagheremo l’imu. Arrgh!

 

…E ci spetta anche il bottino, l’8mille dicono alcuni, secondo me ce deveno da minimo er 10%!!!

 

La mia visione della cosa, (e io sono il Pappa, mica uno qualsiasi) è più improntata a rompere le scatole che a combattere le religioni obsolete. Ci hai fatto caso che PER MOTIVI RELIGIOSI tutto sembra concesso? Gente in america che si coltiva i funghi allucinogeni per entrare in contatto con il loro dio ad esempio. Quindi noi, – per motivi religiosi – pretendiamo in nostri diritti (leggi privilegi). Io ad esempio in ufficio mi alzo e affermo che vado a pregare, prendo il mio pacchetto di sigarette e vado fuori. Che volete impedirmi di fumar…. ehhmmmm di pregare?

 

Religione dal basso? Io parlando in un’intervista a radio rock (the original) ho affermato che il pastafarianesimo è una religione più vicina alla persona, dove non ci sono stupidi divieti. Potremo elaborare ulteriormente il concetto in futuro.

 

 

 

Che il Prodigioso Spaghetto Volante riempia i vostri boccali e vi tocchi con le Sue Sugose Appendici per ispirarvi ad azioni pastafariane. Mi raccomando, non rimanete isolati ed in pochi.

 

Se volete iscrivetevi come pastafariani ufficiali (http://www.pastafariani.net/form/creatore.html).

 

Vogliamo raggiungere un certo numero di devoti per andare a parlare seriamente con il ministero degli interni.

 

Se avete idee o se volete preparare qualche azione vi aiutiamo volentieri.

 

A presto.

 

Rev. Giorgio De Angelis – FB: Al Zarkawi.

 

 

Carissimo Pappa,

 

mi fa piacere sentirti di nuovo. Devo però ammettere di aver fatto un grosso errore: non ho consultato la ciurma di hastalapasta.org prima di rispondere alla tua prima lettera. Forse l’emozione di parlare con una persona così importante come il Supremo Capo della Chiesa Pastafariana Italiana, forse per voler fare figura migliore con risposta veloce, o forse anche la presunzione di ben interpretare i sentimenti dei miei compagni di viaggio. Il risultato però è che mi hanno ripreso, dicendomi che nella mia precedente riposta sono stato fin troppo garbato e accomodante, sorvolando con troppa leggerezza alcune questioni di fondo che emergono dalle tue due email. Per semplicità e chiarezza voglio elencarti tutto qui di seguito.

 

-1-

 

Noi pastafariani siamo pirati, membri del popolo eletto dal Flying Spaghetti Monster. Ho letto più di un libro sui pirati, e non ho mai sentito parlare di capi supremi o stronzate del genere. Lo stesso Bobby Henderson, che fino a prova contraria è l’unica autorità riconosciuta nella nostra religione, si definisce profeta, ovvero colui che fa da intermediario con Sua Spaghettosità, ne recepisce il Sacro Verbo e lo distribuisce. Fine. Non è il capo di un bel niente. E non a caso: la stessa organizzazione della filibusta storica è quanto più orizzontale possibile: niente capi, solo pirati. Per quanto la filmografia romanzesca tenda ad attribuire poteri assoluti ai capitani, in realtà questo è un falso storico. Il ruolo del capitano era indiscusso solamente durante arrembaggi, saccheggi ed altre operazioni di ordine sociale che richiedevano coerenza e rapidità di esecuzione. Nella vita quotidiana ogni pirata era paritario. Al limite il capitano, grazie al suo carisma, poteva essere il grado di esercitare maggiore influenza sulle decisioni comuni, ma nient’altro. Al rientro dalle varie avventure, il bottino veniva spartito in quote maggiori ad ufficiali vari o a tecnici specializzati, come il chirurgo, e a chi avesse perso qualche arto o organo durante le operazioni. Le quote di distribuzione si basavano sopra un testo standard, ma venivano decise di comune accordo  all’inizio del viaggio. Mi sento quindi di definire la filibusta come una anarchia democratica. Assolutamente innovativa, se consideriamo come operasse in un periodo storico di monarchie assolute.

 

 

Io stesso nella mia prima risposta mi sono definito timoniere. Me ne sono pentito: semplicemente sono la persona che ha impostato il modulo dei contatti sul sito Internet impostandone l’invio nella mia casella email. Spero che il buon cuore dei miei compagni gli faccia perdonare la mia arroganza.

 

Capirai bene, caro Pappa, che l’imposizione dall’alto di un Supremo Capo della Chiesa Pastafariana Italiana è stato preso dai miei compagni di viaggio, e in secondo luogo da me, come un atto ostile. Oltre che in contraddizione con le sopraccitate nozioni alla base della nostra religione. Uno dei miei compagni poi si è anche chiesto quale potrebbe essere l’opinione di Bobby Henderson a riguardo. Il dubbio è rimasto anche a me.

 

-2-

 

Nelle tue lettere parli di combattere le religioni obsolete. Ma dalle tue idee quello che emerge è che tu vuoi al più presto diventare a tutti gli effetti una religione obsoleta, beccandoti il tuo bell’otto o dieci per mille e tutti i privilegi connessi che a parole dai l’idea di voler combattere. Anche noi in passato, due o tre mesi fa, abbiamo pensato che il pastafarianesimo fosse tra le altre cose un modo rapido per ottenere i privilegi concessi dallo stato italiano alle religioni storiche, cattolicesimo in testa. Anche con una minima parte dell’otto per mille avremmo potuto rapidamente raccogliere soldi sufficienti per acquistare una nave pirata, a fini religiosi.

 

In passato abbiamo anche pubblicato articoli sul nostro sito inneggianti ad un otto per mille pastafariano, ma francamente però non ci sentiamo più di appoggiare questa posizione. Sarei più felice se nessuna religione prendesse un centesimo dallo stato, ed iniziasse a fare affidamento esclusivo sulle donazioni dei propri fedeli per il suo mantenimento e per le opere di bene. L’idea di attaccarci a ciucciare al capezzolo dello stato ci fa venire da vomitare. Ma non per intolleranza al lattosio, ma perché noi pirati amiamo bere solamente alcolici, e da vigorose caraffe di peltro. E se ci capita di attaccarci a delle tette non è certo per trarne nutrimento.

 

-3-

 

Non approviamo assolutamente l’odio interreligioso che trasuda come sugo dalle tue lettere. Bobby Henderson parla chiaro, e la nostra deve essere e rimanere una religione pacifica. E una religione pacifica non si costruisce sull’odio verso le altre religioni, ma dall’interno, attraverso il rapporto con se stessi, con gli altri fedeli ed ovviamente con Dio. Noi di hastalapasta.org ci abbiamo messo un po’ a capire questi concetti, ma alla fine ci siamo arrivati. E più di tutto ci ha aiutato vedere come anche in Italia ci sono religioni discrete e ben funzionanti. Vedi l’articolo che ho scritto sulla mia frequentazione in incognito ad una cerimonia valdese. Queste religioni meritano tutto il nostro rispetto, e non certo di essere definite obsolete solamente perché esistono da un bel po’ di tempo. Molte di queste religioni non percepiscono l’otto per mille. Nel caso dei valdesi, che invece lo ricevono, nemmeno un centesimo viene destinato ala mantenimento dell’apparato religioso, ma viene interamente destinato alla carità. Non hai specificato cosa vorresti fare una volta che hai convinto il ministro degli interni a darti l’otto/dieci per mille, e quindi non ho idea se vorresti comportarti come la chiesa cattolica e pagarti lo stipendio, o mandare tutto in beneficenza come i valdesi. Sono però convinto che se tu trovassi un momento per visitare la pagine del sito della chiesa valdese o di una delle tante chiese protestanti presenti in Italia, o anche di frequentarne un rito una domenica mattina, ti accorgerai che per molte cose c’è solo che da imparare. Una delle paure di Bobby Henderson, ben esposta su venganza.org , è che col tempo la religione pastafariana potrebbe diventare diffusa e radicata con tanto di fanatici e tutto il resto, come già avviene in molte altre religioni, cristianesimo e islam in testa. La tua politica, caro Pappa, sembra voler portare a questo, e noi ci auguriamo solamente che il pastafarianesimo abbia la forza e la costanza di restare umile, onesto e decoroso nel tempo come sono riuscite a fare la chiesa valdese o molte chiese cristiane protestanti.

 

Non tutte, beninteso.

 

-4-

 

Troviamo la forma di scrittura “Prodigioso Spaghetto Volante” blasfema. Sappiamo bene che questa è la forma che compare nella traduzione italiana del libro di Bobby Henderson. Ma non ci interessa. Riteniamo che sia più corretto usare o la forma inglese, Flying Spaghetti Monster, o una traduzione più corretta, Mostro degli Spaghetti Volante. Oppure uno dei mille gustosi appellativi improvvisati, numerosi come le Sue Spaghettose Appendici: Sua Sugosità, l’Altissimo Spaghetto, Colui che Tutto Macchia di Sugo. Non ci va di fare riferimento all’ennesimo esempio di traduzione pedestre operata da una casa editoriale.

 

 

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In conclusione: riferendomi in modo particolare ai primi due punti, mi sembra chiaro che nessuno di noi membri di hastalapasta.org aderirà al vostro gruppo, e riconoscerà ufficialmente la vostra Chiesa Pastafariana Italiana. Senza alcun rancore, ovviamente. Già siamo pochi, noi pastafariani. Ci mancherebbe anche se dovessimo metterci a litigare.

 

Io in particolare ho trovato questo scambio di opinioni tra pirati pastafariani molto illuminante e costruttivo. Come spesso accade in questi casi, queste discussioni diventano eccezionali occasioni per affrontare con chiarezza molti dubbi o perplessità che spesso rimangono insolute nella quotidianità. Ti chiedo quindi, alla fine di questo nostro scambio di opinioni, il permesso di poter pubblicare il nostro dibattito epistolare in un articolo su hastalapasta.org . Sarei onorato se tu vorrai fare lo stesso.

 

Attendo con ansia la tua risposta,

 

ancora devotamente, Alberto

 

 

Stimato Pirata Alberto,

 

mi trovo d’accordo con quanto scrivi, vista la brevità della mia risposta sono potuti sorgere dubbi che voglio scacciare subito.

 

A Bobby Henderson è stata comunicata la decisione di fondare la Chiesa Pastafariana Italiana, non so se le altre chiese in Russia, Germania, Grecia eccetera hanno fatto la stessa cosa. Il Profeta non si è opposto.

Io sono semplicemente il Pappa, la dicitura Supremo Capo è solo per salvare l’apparenza e dare un certo tono. Il Pappa viene eletto ogni anno democraticamente: una capoccia un voto, come sulle navi dei Pirati.

 

Chiedere l’8 per mille è una provocazione, ma se mai lo otterremo lo useremo per beneficenza perché noi vogliamo la felicità di tutti.

 

Essendo noi due Pastafariani la pensiamo allo stesso modo, poi che voi di hastalapasta aderiate o no non è importante, saremo sempre Fratelli.

Per la traduzione, devo dirti che la parola Mostro, in italiano, ha assunto una connotazione negativa, mentre in inglese ha conservato il suo aspetto di – meraviglioso, prodigioso, eccetera. Per questo ho ritenuto opportuno usare questa dicitura.

 

Siamo una religione pacifica, ma attenzione, non tolleriamo l’intolleranza. Il problema di essere eccessivamente pacifici è che si reprime troppo l’aggressività, che è una componente della personalità.

Lasciare una valvola di sfogo da utilizzare per combattere è salutare. Le nostre azioni in combattimento rispecchiano la nostra natura pacifica, non combattiamo con le armi ma con le parole e con la conoscenza.

 

Io sono contento di questo scambio di idee con te e con gli altri Pirati di Hastalapasta, hai il permesso di pubblicare tutto quello che vuoi anche se, da bravo Pirata non dovresti chiedere nessun permesso.

 

Ramen Fralli di Hastalapasta! Che lo Spaghetto Volante (mostruoso o prodigioso che sia) vi dia birra e sugo!

 

 

Fratello reverendo, la tua risposta giunge lieta. Direi che la fratellanza è sancita!

 

Ho consultato di nuovo i miei compagni di viaggio, ma ero certo che sarebbero stati d’accordo. Infatti hanno benedetto l’evento come meglio non si poteva. Quello dei due che si trovava sul nostro continente ha visitato la mia cabina giusto ieri sera, per unirsi ad un banchetto estemporaneo. Libagioni benedette quali pizza e birra hanno suggellato l’evento. Non ho chiesto al fratello d’Africa, ma sono più che certo che abbia fatto lo stesso.

 

Abbiamo anche riflettuto sui punti che hai evidenziato con la tua ultima risposta. Soprattutto su quanto dici riguardo all’intolleranza. E’ vero: se da una parte ci definiamo pirati pacifici, questo non vuol dire che dobbiamo tollerare soprusi o angherie da chi non vuole rispettare le nostre piratesche opinioni. Ogni religione ha diritto di esistere: quella giusta e confermata da inconfutabili evidenze, ovvero la nostra, così come le altre. Questo diritto va difeso, e noi siamo qui per questo.

 

Che i vostri vascelli navighino nel sugo, fratello pirata! E che la nostra fratellanza duri tanti anni quanti sono gli Amorevoli Spaghetti della Sua Amidacea Presenza!

 

Alla prossima visita,

il pirata Alberto

 

 

Sulla tassa sulla tassa sui rifiuti

Anche nella vita di un buon pirata timorato del Dio ci sono dei momenti in cui è necessario scontrarsi con la dura realtà della vita quotidiana. Non si vive di soli arrembaggi, birra e smargiassate. Siamo un popolo ospite, una minoranza, e a volte bisogna anche rispettare gli usi e costumi dell’altra gente. Non sia mai che si dica di me che sono un pirata maleducato o incivile.

 

Insomma, devo pagare una tassa sui rifiuti. Perché non siamo in mare, e non si può buttare ogni immondizia dall’oblò o facendola camminare sulla passerella.

 

Per pagare la tassa sui rifiuti devo però scontrarmi con una delle realtà più temute della deviata umanità moderna: l’ufficio postale. Questa aberrazione del genere umano è un non-luogo dove anime perdute trascinano il loro triste corpo mortale per svolgere una serie di discordanti operazioni, la cui stragrande maggioranza potrebbe essere tranquillamente svolta da casa, in un luogo più piacevole o addirittura automaticamente da delle macchine incoscienti, o non svolta del tutto. La terribile evidenza poi è la crudeltà del procedimento: per fare ogni cosa all’ufficio postale devo attendere umilmente il mio turno amalgamandomi nella massa infelice di gente già arrivata da tempo immemore, umiliata da una febbricitante attesa senza fine del proprio turno.

 

Coda all'ufficio postale
Tre miei concittadini in coda all’ufficio postale di Gussago (foto di archivio)

 

In teoria la coda alle poste dovrebbe mostrare una estrazione casuale di persone,  ma credo che non sia così. Un po’ la sofferenza del momento stesso, un po’ che forse molta gente si ritrova per sua disgrazia a frequentare questi luoghi più spesso di altre persone, e che ciò non giovi alla salute e al morale. L’impressione che si ha è sempre quella di sprofondare in un girone dantesco per espiare già in vita un qualche male commesso e dimenticato.


La gente in coda alle poste si incattivisce. Se al mercato tutti sono allegri e scherzosi, basta varcare le soglie dell’ufficio postale per precipitare nello sconforto più nero. Alcuni di questi poi hanno anche una certa età e facilmente hanno un numero di presenze in questi luoghi drammaticamente alto. Facilmente hanno anche superato la soglia del non ritorno, quella per cui il loro carattere ha subito mutazioni permanenti tali da cercare volontariamente di scaricare all’interno dell’ufficio postale una cattiveria immotivata contro dei poveri malcapitati. Tali individui, che potrei definire come i professionisti della coda all’ufficio postale, provano un gusto perverso nel passare gran parte del loro tempo in coda, ad infastidire noi poveri dilettanti. Essendo in genere ormai pensionati, possono permettersi il lusso negato ai più di scegliere l’orario di visita che più gli aggrada. Con chirurgica crudeltà andranno ovviamente a privilegiare largamente gli orari in cui la gente normale è costretta suo malgrado a frequentare l’ufficio postale, come ad esempio le pause pranzo. La descrizione manzoniana del Lazzaretto rende abbastanza bene l’idea dello spettacolo che ci si ritrova di fronte quando si è costretti a varcare i cancelli degli uffici postali in questi orari. Non paghi di aver trasformato l’attesa in un lebbrosario ed infastidito chiunque con una serie di comportamenti tali da far arrossire Edward Teach, tali individui, una volta giunto il loro turno, daranno prova di suprema padronanza del locale, impiegando tempi omerici per ogni operazione, quali cercare di recuperare un foglio in fondo alla borsa senza togliersi i guanti di pelo d’orso bianco, o cercare gli occhiali in tasca quando sono sulla testa. O, peggio ancora, lamentarsi che si stava meglio quando si stava peggio, chiedere la conversione in lire di otto centesimi di euro, o pretendere la lettura a voce alta di quelle scritte strane che compaiono un po’ ovunque sui vari bollettini. In un mondo felice e normale tutte queste operazioni potevano essere evitate, oppure fatte nel tempo perso in attesa, ma la loro perfidia li ha portati a svolgerle solamente di fronte al bancone. Perché adesso è il loro turno. Il loro momento di gloria. Hanno atteso per questo, e guai a chi gli dice qualcosa. Altro che warholliano quarto d’ora per ogni vita: qui si parla di mezzora ogni settimana.

 

Alcuni oscuri personaggi passano davanti a tutti. Sono i possessori della PrivilegioCard. Ottenere una PrivilegioCard è molto semplice: basta pagare il pizzo alle poste. È legale perché é una cosa volontaria. In cambio dei soldi che si danno alle poste, si passa davanti a tutti quelli che non hanno dato niente alle poste, come me. Praticamente tu paghi qualcosa alle poste, ed in cambio le poste rubano un po’ del tempo delle altre persone. Per chiudere il cerchio, queste persone augurano ogni sorta di malattia debilitante ai possessori di PrivilegioCard. Se poi un bel giorno tutti quanti dovessimo comprarci una bella PrivilegioCard ci accorgeremmo di dover fare la fila tutti insieme, e di essere nel contempo un po’ più poveri. E forse solo allora ci sentiremmo anche un po’ più stupidi.

 

Ma alle poste non c’è solo gente infelice senza PrivilegioCard e gente odiata che gli passa davanti. Dall’altro lato di un enorme bancone antisfondamento ci sono una serie di garruli individui intenti ad assecondare noi poveri questuanti. Questi svolgono operazioni e misurano ogni gesto e movimento con studiata precisione tale da far pensare ai più che vogliano prendere in giro la lunga fila in attesa con la loro lentezza esasperante. Si relazionano con una persona alla volta dopo averla chiamata stancamente con un numero seriale. Un tabellone dai colori aggressivi chiama senza voce il prossimo della fila, e tutte le persone in coda controllano meccanicamente il proprio numero seriale stampato su un fogliettino di carta dalla macchina vomitratrice. Quello che l’ha già guardato più volte vince, e si avvicina trionfante al bancone. Sempre che lo sventurato abbia abbandonato nel frattempo. Cosa che accade molto spesso: per mia personale statistica, ogni dieci numeri che vengono chiamati ce ne sono almeno due che non rispondono all’appello. Sono quelle persone che o sono svenute a causa della lunga attesa, o sono scappate a metà, o non ci hanno nemmeno provato, e si sono limitate ad osservare sconcertate la coda di materiale umano già accampato nella sala e la distanza tra il numero seriale appena ritirato dalla macchinetta e quello scritto ad enormi caratteri luminosi sul muro di fronte.

 

Quando è il proprio turno, può accadere che la persona abbia la fortuna di avere con sé tutte le carte necessarie al suo scopo. Allora non ci saranno intoppi, e alla fine verrà congedata senza problemi. Ma se invece qualcosa va storto, come ad esempio l’espositore dei bollettini da compilare che non ha quelli giusti, allora il povero utente è destinato a precipitare in una deviazione della curva spaziotemporale. Questo perché quando si chiede il bollettino giusto al Sacerdote Postale, o ci si rende conto dal suo sguardo maligno e compiaciuto di averne appena compilato uno sbagliato, il Ministro delle Funzioni Postali con un gesto perentorio del dito indice spedisce il reo al banco della punizione, dopo avere consegnato il bollettino corretto, estratto da un luogo che deve restare inaccessibile alla gente comune. Quindi il bollettino va compilato usando la penna dell’ufficio postale. Per aumentare il senso di umiliazione e sconforto questa penna è tenuta incatenata con un filo di spago del salame logorato dai secoli, che è sistematicamente più corto della penna stessa, per impedire a chi sta subendo la punizione di poter scrivere normalmente. La penna stessa appare alla vista e al tatto tutta ricoperta da graffi e morsi, a testimonianza delle generazioni intere di dannati che si sono trovati costretti a ricorrere a questo strumento di tortura. L’idea stessa dello spago credo serva a scoraggiare il furto della penna, ma a parer mio bisognerebbe essere dei pervertiti anche solo a pensare di voler portare via con sé un simile focolaio di microrganismi. Quando poi finalmente si è finito di compilare tutto quanto, si può cercare di reinserirsi nel continuum spaziotemporale. Ma ovviamente la fila è andata avanti, e se si vuole pretendere di venire servito violerebbe la Prima Legge Aurea dell’Ufficio Postale: serviamo uno sfortunato alla volta. Il Sacerdote Postale sembra sempre intento a farsi i cavolacci suoi, ma in realtà tiene tutto sotto controllo. Dopo un tempo che giudicherà giusto, finalmente farà in modo che il suo sguardo trovi il quello del penitente. Con un rapido cenno fa capire che potrà ritornare tra i vivi, e con un secondo cenno individua colui che già si apprestava a venire servito, facendogli capire che il suo momento non è ancora giunto.

 

Una volta ho avuto l’ardire di fare una domanda volgare e aggressiva: ho chiesto se potevo ricaricare la mia PostePay usando il mio bancomat della banca direttamente all’ufficio postale. Non credo di aver mai visto uno sguardo così schifato in vita mia. Dopo aver aggrottato le sopracciglia e avermi mostrato i canini, la ministra dello sportello mi ha fatto notare con voce cavernosa e recitando le parole alla rovescia quanto fosse stupida ed inutile la mia domanda: sono due circuiti diversi! Giovane deficiente: l’unica cosa che ha senso che tu faccia se vuoi caricare mille euro sulla tua PostePay è che frequenti per quattro volte di fila in quattro giorni un bancomat. Tiri giù i tuoi duecentocinquanta euro alla volta, ed il quinto giorno ti presenti qui con la tua mazzetta di soldi, e noi carichiamo novecentonovantanove euro sul tuo pezzo di plastica. E un euro ce lo teniamo noi, per fare in modo che il tuo numero risulti un po’ più satanico. Oppure estingui il tuo conto nella tua stupida banca e apri un conto BancoPosta qui da noi, per provare l’ebbrezza di una coda all’ufficio postale molto più di frequente. Ho capito.

 

Perché scrivo tutto questo? Perché giusto ieri ho avuto l’ardire di vedere se si poteva evitare tutta questa sofferenza. Magari facendo una cosa moderna, come pagare il mio bollettino della tassa sui rifiuti con Internet. Chi lo sa. Pensa un po’, pare che si possa. Il sito è questo qui:

 

bollettino.poste.it

 

Anche semplice come nome. Chiede l’utente e la password. Misteriosamente sono già compilate, e non devo andare a cercarmele chissà dove. Un buon segno. Quindi una pagina mi fa due domande facili e poi mi mostra un bollettino digitale, ma fatto uguale a quello di carta. E un po’ più rosso.

 

Il bollettino postale online. A parte i colori accattivanti, assomiglia molto al suo nonno cartaceo

Prendo il cartaceo e copio tutti i numerini nei vari campi. Schiaccio CONTINUA e avviene la magia: una serie di altri campi vanno a riempirsi con il nome dell’ufficio del mio comune che sarà più contento di tutti nel vedere che sto pagando in tempo la mia imposta.

 

Ovviamente non va tutto bene. O meglio, non può andare tutto bene: sicuramente devo aspettarmi che dietro l’angolo si annidi la fregatura, o il problema bloccante. E infatti è celato in un innocuo menù a tendina, con il valore preimpostato di carta PostePay. Non ho una PostePay. O meglio, ce l’ho, ma ha sopra meno di un euro, e per ricaricarla dovrei spendere un euro di soldi e minimo mezz’ora del mio tempo nel sopra menzionato ufficio postale. Non ha molto senso voler usare una PostePay per pagare un bollettino online, ma dover andare alle poste per ricaricarla. Cambio quindi il valore in quello a me più congeniale, ovvero Carta di Credito Mastercard.

 

La pagina con il mio carrello della spesa sul sito delle poste italiane.

Ed ecco il fattaccio: il valore della commissione mi cambia da uno a due euro. Bene. Grazie. Proprio il modo migliore per invogliarmi a non intasare i vostri uffici e far perdere del tempo ai vostri funzionari. Invece di farmi pagare di meno, mi fate pagare di più. Della serie: il bollettino lo devo pagare per forza. Voglio rimanere padrone del mio tempo e non fare la coda nei loro uffici? Benissimo. Però li pago. Di più. Per avere indietro il mio tempo. Voglio pagare di meno perché ho poca considerazione del mio tempo libero, oppure sono un povero disoccupato o pensionato che non ha niente di meglio da fare che passare il tempo in coda da loro? Allora siamo tutti d’accordo: tutti gli uffici postali d’Italia non aspettano altro che me, e saranno felicissimi che io faccia perdere tempo al loro personale scocciato, che consumi l’inchiostro della loro penna millenaria, che sprechi la carta con i miei errori di compilazione, che usuri le loro sedie con la mia mania di non voler stare in piedi per più di mezz’ora.

 

Qui finisce la mia storia. Avrei preferito finirla con l’avvenuto pagamento, ma anche se ho accettato il balzello di due euro, mi sono poi miseramente arenato di fronte alla terza domanda di supersicurezza della mia carta di credito, a cui proprio non ho saputo rispondere. Anzi: credo di aver fatto saltare tutto il sistema informatico bancario, perché dopo il millesimo tentativo di azzeccare la password e il conseguente cambiamento della stessa nel sito della banca, è uscito il messaggio che c’erano problemi tecnici, e che il sistema non funzionava correttamente. Ho come l’impressione domani in pausa pranzo dovrò farmi un po’ di coda. Devo decidere se il posta o in banca.

 

Grazie, ci si vede alle poste.

Tiramisù pastafarian-piratesco all’ananas

Alcune parole, poi la ricetta

Antica tradizione piratesca è quella dell’ospitalità: quando si invita non si chiede niente, e se l’ospite insiste gli si propone la componente alcolica o il dolce. Quando si viene invitati si insiste per la classica ‘bussata coi piedi’: non sia mai che un pirata varca la soglia dell’abitazione di un compagno di scorribande per un invito, senza che le mani siano colme di libagioni!

Questa la premessa. Insomma: io e la mia amata veniamo invitati a cena da una coppia di amici. Già al telefono mi propongo per una ricetta nuova di cui mi ha parlato con grande entusiasmo un’altra coppia di amici. Lei come artefice, lui come consumatore. Sto parlando del classico tiramisù all’ananas.


Ricetta che non ho mai avuto il piacere né di fare né di mangiare. Ma proviamo.

Non volevo però disturbare colei che mi ha portato al’attenzione la ricetta: ha avuto una bimba ieri, e facilmente avrà altro da fare che non dettarmi una ricetta al telefono. Ebbene sì: anche noi rozzi bucanieri non siamo immuni da rare delicatezze. Gliela chiederò domani, in ogni caso: passeremo a trovarla, lei e a bimba.

E allora si va nell’oceano internettiano e si seguono le istruzioni. Supermercato per il mascarpone, la panna, l’ananas e la birra (l’ultima non è per la ricetta, è per l’ispirazione del cuoco). Il resto degli ingredienti è già in cambusa che aspetta il suo destino. Rompi, sbatti, mescola, stratifica e disponi. Ed ecco! Appare Colui Che Tutto Dispone Con Spaghettosa Asimmetria! La mia mano, che d’ora in poi non potrò più lavare se non nella birra benedetta, è stata inconsapevolmente guidata nella disposizione dell’ultimo strato di ananas verso l’ennesima dimostrazione della Sua Divina Esistenza!

Grande il mio stupore, ma conoscendo la nota abitudine del Signore del Carboidrato ad apparire nei momenti più impensabili, porto sempre con me una macchina fotografica carica. E con questa ho immortalato la Sacra Apparizione, affinché l’apparizione non serva solo a me, già devoto seguace, ma anche a tutti quelli che ancora hanno bisogno di vedere per credere. Qui di seguito la ricetta, perché anche voi possiate fare questo in memoria di Lui.

Ingredienti!

1) Uno scatolotto di mascarpone, di quelli da mezzo chilo.

2) Un bel po’ di ananas a fette sciroppato. Magari anche più di una latta.

3) Uova. Facciamo cinque.

4) Zucchero di canna, che è più salutare di quell’altro che viene sbiancato con il dentifricio avanzato nei tubetti che buttate nella spazzatura. Non è che siccome siamo pirati dobbiamo per forza farci del male ogni volta. Dai.

5) I noti biscotti usati per il tiramisù che non si dovrebbe dire la marca ma che di fatto si chiamano così perché li fa solo una marca, di cui sono anche il diminutivo. Se non l’avete ancora capito copiate questa roba bianca compresa qui di seguito tra i due trattini

Pavesini! Ci voleva tanto!?

e incollatela da un’altra parte, tipo nel blocco note del vostro computer. Apparirà magicamente il nome del prodotto, come quando si usa l’inchiostro simpatico per le mappe del tesoro.

6) Panna liquida. Non dico quanta ne serve, perché in ogni caso verrà buttata via tutta, visto che immancabilmente sbattendola si autoscompone in una cosa viscida e sbavosa, totalmente inservibile. Se siete più astuti di me, potreste anche pensare di fare direttamente a meno di prenderla.

Procedimento!

Prendiamo dall’antello il robot col braccio che monta. Dobbiamo montarci la panna e i tuorli delle uova, quindi iniziamo dalla panna, visto che è bianca ed è più facile che sia lei a sporcarsi di tuorlo che non i tuorli a sporcarsi di panna. Vai con la frullata! Distraiamoci un attimo ed iniziamo a rompere un paio di uova, facendo attenzione a separare i tuorli dagli albumi. Dopo due uova ci giriamo per accorgerci che la panna, da cosa liquida e di aspetto decoroso che era, si è duplicata in una serie di grumetti bianchicci e in un liquido di brutto aspetto. Ecco: è da buttare. Cerchiamo di buttare tutto nel lavandino, ma questa Cosa ha già via propria e non vuole andarci, nel buco del lavandino. Preferisce propagarsi sui fornelli e sul piano di lavoro, o più semplicemente ignorare la forza di gravità e rimanere aggrappata al contenitore o risalire la propria mano esasperata, per cercare di infilarsi sotto la maglietta. Se proviamo ad usare una spugna, questa diventerà rapidamente complice della Cosa, e propagherà minuscole colonie di Cosa in tutti i posti in cui cercherò di usarla.

Dopo una strenua battaglia a colpi di rotoloni di carta, si riesce a spostare le ambizioni espansionistiche della Cosa verso il cestino dello sporco. Riconquistando la fiducia della spugna, ormai liberata, riusciamo a riprendere il controllo della cucina.

Ci si chiede a questo punto come si può rimpiazzare la panna nella ricetta. Andiamo al mercato a prendere una sola altra confezione di panna liquida? No dai. Ma ci viene in mente che avevamo giusto da parte gli albumi delle uova, perché il bravo cuoco pirata delle uova butta via solo i gusci. E a volte nemmeno quelli. Chissà. Riprendiamo la ricetta.

Finiamo di separare i bianchi dai rossi. Poi facciamo coi bianchi quello che abbiamo tentato di fare prima con la panna mutante. Stavolta non succede niente di imprevisto: gli albumi da opachi traslucidi diventano bianchi e spumosi. Bello: questa variazione mi affascina sempre, quando non cerca di uccidermi.

Spostiamo la spumosità in un altro posto, diamo una pulita sommaria al contenitore del robot e ci mettiamo i tuorli con un po’ di zucchero di canna, tipo cinque o sei cucchiai. E via a mescolare di nuovo. E dopo un po’ ci buttiamo dentro il mascarpone, un po’ alla volta. Qui non aumenta di volume, ma diventa bello cremoso, di un giallo tenue anche invitante. Potete anche assaggiarlo, se volete, così magari vi regolate con lo zucchero. Se invece provate ad assaggiare gli albumi montati, potrete apprezzare il sapore più inutile della cucina, insieme ad una consistenza decisamente fastidiosa. D’altra parte, non ha nemmeno molto senso assaggiare un composto che composto non è, dato che è fatto solo di un ingrediente. Meglio assaggiare la crema giallina fatta di tuorli e mascarpone, che dovrebbe avere un sapore più decente. Se non è così, credo sia meglio che la buttiate e ne facciate un’altra da capo.

Quando la crema di mascarpone è bella omogenea, tiratela fuori dal contenitore del robot e mettetela in una bella ciotola capiente. Poi un po’ alla volta ci buttate sopra a palettate un po’ di albumi montati, mescolando con la celebre e misteriosa mossa “dalll’alto verso il basso”. Ovvero prendendo palettate di crema gialla e buttandola delicatamente sopra alla roba spumosa bianca. E poi mescolando. E via così finché non ci sono più una spuma bianca e una crea giallina, ma solamente una crema, di un giallo ancora più chiaro.

Finalmente possiamo impossessarci del barattolo di ananas. Evitiamo magari di appoggiarlo sul piano di lavoro: considerate che queste latte, data la loro leggendaria impermeabilità a tutto e tutti, spesso e volentieri prima di arrivare nella vostra cambusa stanno in posti non dei più puliti. Quindi meglio tenerle lontane da tutto il resto. L’avete appoggiato già appoggiato nella crema?  Pazienza.

Aprite il nefasto barattolo. Non buttare via lo sciroppo che ci serve. Mettete lo sciroppo da una parte e le fette da un’altra, o lasciatele nel barattolo.

Vai ora con i biscotti Pavesini. Li passiamo al volo nello sciroppo dell’ananas e via nel contenitore che abbiamo scelto per presentare il nostro tiramisù. Li disponiamo in modo da coprire la maggior superficie possibile.

Poi un bello strato di ananas, fatto a pezzettini piccoli. Quindi vai con la malta gialla che abbiamo fatto prima.

E ancora: biscotti, ananas a pezzettini e crema gialla. Ad libitum, o almeno finché uno dei tre ingredienti non viene a mancare, o il tiramisù non raggiunge altezze inquietanti. Ricordatevi solo di tenere un po’ di fette di ananas per la decorazione superficiale, altrimenti i vostri commensali non avrebbero indizi per capire che quello che hanno di fronte è un tiramisù all’ananas e non una pirofila piena di una sostanza semisolida gialla.

E a questo punto, se avete fatto tutto come si deve, anche voi avrete composto la Sua Mirabile Immagine sulla superficie del dolce! Passate nella pellicola il contenitore e infilatelo in frigo per qualche ora, a benedire con la Sua Meravigliosa Presenza gli altri ingredienti.

Gustate freddo.

La tradizionale giornata dell’amicizia tra i pastafariani gussaghesi e Karibu Afrika

L’arrivo dell’autunno, con il suo alternarsi di spaghettosi raggi solari e di piogge amide, mi fa correre il pensiero ai trascorsi ultimi giorni d’estate, ed in particolare alla domenica di settembre che ogni anno conferma il forte gemellaggio tra i pastafariani gussaghesi e la Onlus di Karibu Afrika. L’occasione di tale ricorrenza è sempre una nota fiera di paese. Di quelle fiere importanti che richiamano gente del settore un po’ da tutte le parti, e che procurano agli abitanti del paese un tacito orgoglio. Insieme al fastidio di una gran confusione di traffico di macchine e gente per tutte le strade, per una fiera di cui a loro del paese non gliene può fregare di meno.


Detto questo, può sembrare strano che nel corso di tutti questi anni nessuno tra pastafariani e volontari di Karibu accorsi sia mai entrato una volta in questa fiera. E questo non tanto per l’argomento venatorio proposto, non proprio apprezzatissimo né da noi pacifici pirati pastafariani né tantomeno dai volontari di Karibu, le cui ricorrenti visite al continente africano non sono certo per collaudare delle modernissime armi addosso agli animali della savana. Il motivo è anche semplice: la propizia occasione di incontro è quella per la gestione dei vari parcheggi della fiera. Quindi non tanto visitare la fiera per comprare un gilet milletasche mimetico o una trombetta che fa il verso dell’anatra, quanto aiutare gruppi di maschietti con una strampalata passione fallica per i fucili a posteggiare i loro mezzi nei nostri parcheggi, dietro l’ovvia richiesta di una quanto più generosa offerta.

 Il parcheggio dell’amicizia karibupastafariana. Sulla sinistra mezzo pirata parcheggiatore, sullo sfondo un vulcano di birra (inattivo da sempre: è di birra riserva)

 

Per antica tradizione la fiera viene svolta di domenica. Questo per conciliarsi meglio con gli umori mattutini di Sua Divina Sugosità: sovente di sabato dopo le serate alcoliche della sera precedente il Signore della Pasta tende a dimenticarsi di benedire le feste pastafariane con un clima propizio. Lavorando noi di domenica, abbiamo la garanzia di una giornata scaldata fin dalle prime ore del mattino da un sole vigoroso, ma pure accarezzati dalla piacevole aria generata dal movimento amorevole delle Sue Spaghettose Appendici. A conseguenza di ciò, la FIA si è accorta di questa sistematica domenica settembrina particolarmente calda e propizia, e ha deciso di organizzare il gran premio di Monza in perfetta concomitanza con la nostra fiera.

Quelle però che i signori a Monza non possono assolutamente avere sono le vampate alcoliche della vicina distilleria, in piena produzione di una delle più celebri grappe bianche italiane. Anche qui, per Suo Mirabile Disegno, la fiera viene a coincidere con la vendemmia anticipata delle uve per il Franciacorta, che porta enormi quantità di ottimi raspi a regalare la loro ultima anima alcolica nei pressi del nostro parcheggio, deliziando parcheggiatori e parcheggianti con un vento inebriante nel corso di tutta la giornata.

Il parcheggiamento prosegue impavido per tutta la giornata. Una pausa viene fatta all’ora di pranzo, quando i pastafariani e i volontari di Karibu Afrika si incontrano per celebrare il Rito della Pasta presso una casa amica. Qui vengono servite dalle pulzelle del luogo ingenti quantità di vettovaglie ad alto contenuto di carboidrati, accompagnate da una adeguata dose di bevande alcoliche. Volontari e pirati danno dimostrazione di grande apprezzamento anche senza parlare.

Tornati quindi al proprio posto, si riprende ad accompagnare gli amici cacciatori nelle loro elaborate manovre di parcheggio, con la complicazione dell’ebbrezza di entrambi. I più arriveranno solo più tardi, dopo aver compiuto la rituale pennichella sul divano col televisore sul Gran Premio di Monza.

 Due parcheggiatori a riposo, orgogliosi di aver fatto sistemato in un posto privilegiato una Vespa pastafariana

 

Dopo anni ad aiutare tali personaggi a parcheggiare il loro veicolo, si possono iniziare ad azzardare dati statistici estemporanei. Il più evidente è quello che differenzia il cacciatore con moglie, di cattivo umore e quindi pronto alla contestazione dell’offerta, rispetto alla generosità del gruppo ridanciano e goliardico di amici cacciatori, che all’atto della questua fanno a gara ad estrarre dal portafoglio quante più monete possibile da porgere alle nostre pulzelle addette alla cassa, in una gara di generosità che non può fare che bene ai nostri fratelli keniani.

Il parco macchine pure è abbastanza particolare. Dai cacciatori ci si aspettano mezzi rustici e provati dagli aspri sentieri di montagna. Ma per quello che si vede, anche loro non sono immuni al fascino salottiero del SUV, che infestano abbondantemente il nostro parcheggio come qualsiasi altro parcheggio di supermercato. Cambiano solo le modalità: al supermercato o la bionda guidatrice cerca parcheggio fino a riuscire a trovarne due o tre liberi vicini, parcheggiandoci di traverso, oppure, più previdente, si porta il marito, lasciandolo con l’aria condizionata e il motore acceso sotto allo scivolo dei disabili. Qui invece sono i mariti a guidare le loro potenti autovetture dai finestrini anneriti, ed il nostro compito è quello di impedire loro di correggere la geometria delle altre vetture con i loro paraurti antibufalo.

Non riesco a capire quale sia l’utilità di un’automobile grossa come un pulmino della SIA in un sentiero di montagna. Mi verrebbe da chiederlo a qualcuno di loro, ma non vorrei mai urtare la sensibilità di un uomo abituato ad usare un fucile, facendogli una domanda che potrebbe giudicare come indiscreta.

Due dei nostri più valenti pirati del parcheggio, fieri di aver ricevuto una generosa offerta dal guidatore del SUV grigio sulla destra

 

Al parcheggio però non girano tutti con dei monolocali su ruote. Molta gente ha automobili normali, di quelle che si vedono normalmente sulle normali strade italiane. Da queste automobili scendono insospettabili gruppi di giovani, anche con morosa al seguito o addirittura padri di famiglia con mogli e passeggini pieni di adorabili bambini, felici come una pasqua perché già il loro pensiero va  all’imminente palloncino del cartone animato di turno. tutti questi campioni di normalità non hanno l’aria di cacciatori, ma non si può mai sapere che segreti nasconda una persona.

I veri cacciatori si muovono in branchi, come se andare alla loro fiera non è altro che il preambolo di una serie di fortunate battute di caccia grossa. Quelli che non hanno il SUV sono i più seri, perché li vedi scendere in quattro o cinque da delle Panda 4×4 verde palude, appena impacciati dagli ingombranti girovita coltivati negli anni. La prova costume è d’obbligo, forse per distinguersi dai profani che frequentano la fiera solo per rimpiazzare il criceto preso l’anno prima. La stagione 2012/2013 predilige capi dai toni kaki o verde militare, meglio se maculati. Su tutti spiccano i pantaloni con le tascone sulle cosce, il gilet e il bettettino. Quest’ultimo particolarmente importante: anche se contrariamente ai primi due non è fornito di tasche, la sua presenza impedisce il riverbero del sole sulla calvizie a cui pennuti e selvaggina si sono da tempo abituati a prestare molta attenzione.

Quello che mi stupisce sempre è come questo popolo dei boschi, temperato da anni di dure escursioni appesantite da armi, munizioni e prede mastodontiche, quando si ritrova alla fiera debba chiedere ogni volta se non c’è un posto più vicino di quello distante almeno trenta metri dall’uscita del parcheggio. E che poi debba sempre seguire l’interrogatorio su quale sia delle due la strada più breve per entrare alla fiera. Tipo che una dista centoventi metri e l’altra centoquaranta, e per di più con una lieve salita. Dopo aver dubitato più volte delle risposte divertite del parcheggiatore, finalmente si decide a prendere una delle due strade. Covando però ancora il germe del dubbio: mai fidarsi di uno senza cartucciera a tracolla: potrebbe essere una spia di Licia Colò, o addirittura un verde!

Intorno alle sei di sera i veri cacciatori se ne sono andati da un pezzo. Rimane il popolo dei curiosiche vogliono entrare gratis, o magari di quelli che vogliono prendersi un qualche animale da compagnia, destinandolo ad un futuro più monotono e adiposo rispetto ai loro fratelli comprati la mattina. Quando ormai passano cinque minuti tra una macchina e l’altra anche noi decidiamo di levare le tende. Con quel po’ di tristezza che rimane al pensiero che questo spazio comunale è già da tempo stato venduto al solito edile di turno, che non vede l’ora che siano pronte le carte per poterci costruire l’ennesimo abuso edilizio legalizzato. Ogni volta che ce ne andiamo pensiamo che potrebbe essere l’ultima volta che possiamo aiutare i nostri amici dell’Africa con questa bella giornata di festa.

Hasta la pasta dal devoto Alberto.

Sui rischi di bivi evolutivi dal genere umano a causa della religione

Una sera io e la mia amata cercavamo di trovare le forze e la voglia di cucinare qualcosa, alzando ancora di più la già alta temperatura di un agosto agguerrito. Oltre all’apatia del momento, il mio pensiero correva preoccupato al grafico della drammatica relazione inversa tra numero di pirati e surriscaldamento globale.

(la fonte? Ma che domande! Questa)

Il grafico parla chiaro: la diminuzione dei pirati porta ad un aumento della temperatura. Ma lì per lì credo di aver pensato che la relazione potesse funzionare anche all’inverso: ancora un po’ più caldo, e il sottoscritto pirata ci avrebbe lasciato le penne.

All’improvviso lei, Mia Musa, mi ha sorpreso con una acutissima osservazione, facendomi capire che potremmo essere di fronte ad un bivio evolutivo nel genere umano. Mi ha detto che capita sempre più spesso che alcuni membri di alcune associazioni religiose della concorrenza si uniscano in un rapporto di coppia stabile e teoricamente definitivo con un membro della stessa associazione, anche se tassativamente di sesso diverso. Quest’ultima condizione per via di una precisa disposizione della loro stessa religione.

Addirittura pare che alcuni aderenti a queste società discendano già da una relazione di questo tipo, ovvero in cui entrambi i genitori appartenevano alla stessa associazione religiosa prima ancora di associarsi in un vincolo affettivo esplicito, e quindi di procreare. Non posso però essere più preciso: non frequentando tali ambienti i dati di cui dispongo non sono di prima mano, e la religione pastafariana italiana non dispone ancora di una rete di informazione efficiente come quella della concorrenza.

Mi è però venuto in mente il primo capitolo del libro la Scimmia Nuda di Desmond Morris, quello in cui si parla dello scoiattolo con le zampe nere. Lo zoologo parte dalla considerazione che tale animale non possa appartenere a nessuna delle specie di scoiattolo conosciute: nessuno ha queste zampe nere! Per questo prontamente gli dà un nome identificativo: scoiattolo con le zampe nere. Giusto per distinguerlo dagli scoiattoli con le zampe di altri colori. Poi inizia a ragionare come un etologo, e quindi ci spiega che se un gruppo di una popolazione di scoiattoli inizia a distinguersi da un altro è sicuramente in seguito a qualche circostanza ambientale che ha reso alcuni scoiattoli leggermente differenti. Tali scoiattoli avranno iniziato ad accopparsi tendenzialmente tra loro, per via di abitudini leggermente differenti, e ad evolvere via via usanze sempre più lontane da quelle degli altri scoiattoli per scoraggiare unioni con questi.

(una rara immagine di un momento romantico tra due scoiattoli con le zampe color topo, presa qui)

Alla fine i due gruppi di scoiattoli saranno ancora sessualmente compatibili, ma anche solo una preferenza sessuale o dei rituali di accoppiamento diverso farà sì che le unioni tra i due gruppi siano praticamente assenti, e che quindi le zampe nere diventino sempre più nere, e le zampe non nere rimangano tali.

Perché perdermi tra scoiattoli e zampe nere, quando stavo parlando di associazioni religiose? Ma perché quello che è successo ai nostri amici scoiattoli sta accadendo anche a questi gruppi: le loro usanze arcaiche ed i loro rituali arcaici si stanno sempre più differenziando da quelli della società moderna, e sono già tali da scoraggiare le unioni di elementi di questi gruppi con elementi esterni. Di conseguenza, se l’unione e la procreazione avviene sempre più spesso tra elementi interni, i discendenti erediteranno un corredo genetico predisposto ad un’ulteriore aderenza alla stessa associazione. Rafforzata anche da una educazione da parte dei genitori che li spingerà ancora di più in quella direzione.

Non credo che i tempi lenti della biologia possano portare a breve a visibili differenze genetiche. Che so, cose come una voce particolarmente adatta al canto corale, un sovradattamento delle rotule alla genuflessione, o lo sviluppo di un apparato sensoriale e cognitivo ancora più predisposto all’esclusione di evidenze in disaccordo con la propria fede. Ma nessuno può negare come siano già ben visibili diverse caratterizzazioni nel vestiario, come la gonna alla caviglia per lei e il maglione a collo alto per lui, o nelle acconciature. Grazie a questi segni visivi è possibile identificare con chiarezza anche a distanza membri di altre associazioni religiose equivalenti. E se le evidenze sono spesso chiare anche per chi non appartiene a questi gruppi, sicuramente lo sono ancora di più per chi invece ne fa parte.

Dopo tutti questi ragionamenti sui fatti degli altri, viene naturale preoccuparsi anche del popolo pirata. Anche noi corriamo lo stesso rischio? Arriveremo ad un punto in cui la volontà di amoreggiare porterà sistematicamente ad una ricerca di bende sull’occhio e arti mozzati?

un immagine di un amore e consensuale tra un pirata e una pulzella. Un timido tentativo di selezionare la specie?

La cosa mi ha un po’ preoccupato, ma credo che in realtà sia un timore infondato. Questo perché tra le abitudini piratesche più popolari e apprezzate c’è quella dell’accoppiamento non consensuale con esponenti di bell’aspetto selezionati nelle navi arrembate. Abitudine sicuramente ispirata dalla Sua Spaghettosa Lungimiranza. Grazie a questo espediente, il rischio di deviazioni dal genere umano è assente.

(alcuni amici pirati somali in tenuta da corteggiamento si preparano a piacevoli incontri amorosi sulla nave da arrembare. Foto presa qui)

Quando poi non siamo in mare noi pirati siamo pure portati alla sana abitudine di preferire i rapporti con le vigorose pulzelle reperibili con abbondanza in tutte le peggiori osterie dei nostri porti preferiti.

pirata in abito classico nell’atto di ammaliare con sguardo magnetico una impotente pulzella

Anche qui, vedo chiaramente le impronte di sugo di un Disegno Superiore: la ferma volontà di non rinchiuderci in noi stessi o sulle nostre navi, ma di diffondere costantemente il Sacro Verbo in ambienti pubblici quali locande, pub, postriboli e locali di strip tease. Ovvero: abbasso le cerimonie private, viva le osterie aperte fino a tarda notte!

RAmen, il devoto Alberto.

Che peccato (originale)! Storia della rimozione di un sacramento indesiderato

Habemus apostasiam! Gaudium magnum!

Due fogli: uno per me ed uno per il parroco

Un po’ di latinorum è d’obbligo, quando si riceve una lettera dalla curia diocesana di Brescia. Se poi tale lettera è l’attesissima segnalazione che la mia richiesta di sbattezzo “è stata regolarmente perfezionata presso la cancelleria vescovile di questa Curia”, allora è proprio una festa. Cosa posso volere di più che non uscire dal gregge delle pecorelle della Chiesa cattolica apostolica romana per entrare a pieno titolo nella ciurma di pirati della Filibusta pastafariana italiana?


Tecnicamente credo che il peccato originale di Adamo ed Eva torni a gravare su di me, e con lui tutte le colpe dell’umanità. Stranamente, mi sento alleggerito invece che appesantito. Saranno le Sue Spaghettose Appendici a sostenermi con più vigore, ora che sono pastafariano al 100%? La colpa che mi sono ripreso è quella di aver voluto accedere all’albero della Conoscenza. Un peccato che comunque sento mio. Un peccato che rende orgogliosi. Roba da Dante Alighieri:

fatti non foste a viver come bruti, ma per seguir virtute e canoscenza”

Prima di me, altri pirati illustri sono gloriosamente morti per mare in una bramosa ricerca di conoscenza: l’astuto guerriero Ulisse, che disse la frase giusto qui sopra, l’audace capitano Shackleton, il vitaminico esploratore Cook. Mi viene voglia di festeggiare, magari con del sidro di mele, per rimanere in tema adamitico.

Anche se, devo dire, queste cose giungono tutte ad un certo prezzo. E come nel conto di un ristorante, anche qui compare l’elenco delle consumazioni da pagare. Sono tutte annotate in fondo al secondo foglio, quello indirizzato al parroco del mio paese e che io ricevo in copia. Le elenco qui di seguito, come è giusto che sia, qualora anche chi legge queste pagine voglia rendersi conto delle conseguenze a cui va incontro.

 

Conseguenze di ordine giuridico:

  • scomunica latae sententiae (can. 1364 §1);
  • esclusione dall’incarico di padrino per battesimo e confermazione (cann.874 §1; 983 §1)
  • licenza dell’Ordinario del luogo per l’ammissione al matrimonio (cann. 1071 §1 n.5; 1124);
  • privazione delle esequie ecclesiastiche in mancanza di segni di pentimento (can. 1184 §1,1º);
  • esclusione dai sacramenti e dai sacramentali (cann. 1331 §1, 2º; 915).

Effettivamente avrei dovuto immaginare che dopo questa decisione mi sarebbero stati interdetti la carriera ecclesiastica o il matrimonio cattolico (punti terzo e quinto). Rimango però contrariato quando scopro (quarto punto) che si dà per scontato che sul mio letto di morte, qualora questa non avvenga in circostanze improvvise o violente, verrà convocato un prete cattolico per darmi la possibilità di pentimento. Credo che la cosa mi rovinerebbe il gusto del trapasso, soprattutto se per l’emotività del momento non riuscirò ad apostrofare adeguatamente l’intruso e chi l’ha fatto entrare. Auguro quindi a me stesso di trovare morte in un rutilante arrembaggio od in una procellosa tormenta.

Trovo però elettrizzante il privilegio di potermi dichiarare “scomunicato” (primo punto), per diversi motivi. Il primo, più immediato, è che mi pone su di un livello più alto rispetto alla stragrande maggioranza di persone che non hanno proprio in simpatia la chiesa cattolica. Molti si lamentano delle gesta pubbliche dei suoi alti ministri o private di quelli bassi, ma un gesto pratico come uno sbattezzo mi dà una certa ufficialità, come se tra tanti generici brontoloni io possa essere qualificato come “brontolone qualificato”. Sono fresco di apostasia, e non ho ancora potuto testare questo potere, ma in passato già il nominare la volontà di farsi sbattezzare mi ha fatto riscuotere una certa ammirazione.

Il secondo motivo, più intimo, è che mi pone in una elite storica non da poco. Gente che in periodi in cui la chiesa cattolica godeva di un prestigio ha dovuto fare cose un po’ pazze per rimediare ad una scomunica, spesso senza nemmeno riuscirci.

l’umiliazione di Canossa

Correva l’anno 1076, quando papa Gregorio VII si offese per essere stato dichiarato deposto dall’imperatore del Sacro Romano Impero Enrico IV presso il sinodo di Worms. Come conseguenza, il permaloso papa attuò la sua ripicca: scomunicò l’imperatore. La classica situazione in cui due maschietti fanno a gara a chi ha più pelo sullo stomaco. A quanto quello con la pelliccia più folta, e di puro ermellino, era il papa. Enrico fu costretto a stare per tre giorni in ginocchio in una bufera di neve fuori del castello di Matilda di Canossa prima di vedere le proprie scuse accettate dall’inconsolabile pontefice.

Filippo il Bello (per l’epoca)

Il re di Francia Filippo il Bello probabilmente non intendeva subire lo stesso trattamento. Quindi, nel 1303, per rimediare lui stesso ad una fastidiosa scomunica, optò per sistemi più sbrigativi. Mandò due delle sue educande più smaliziate, tali Guglielmo di Nogaret e Giacomo colonna detto Sciarra, ad imprigionare il papa presso Anagni e convincerlo a rivedere la sua bolla di scomunica. Qui i due furfanti si fecero prendere un po’ la mano, e decisero anche di convincere il papa ad abdicare. Il papa contestò questo metodo come non istituzionale, e decise di non assecondarlo. Nemmeno il tempo di un paio di giorni e i cittadini di Anagni pensarono che va bene che questo papa non è proprio simpaticissimo, ma che gli altri non lo fossero di più. E in fondo è pur sempre un papa, ovvero il vicario di dio in terra. E se il papa è permaloso, il loro dio lo era ancora di più. In conclusione pensarono che fosse cosa buona e giusta di liberarlo, e così fecero.

Nel 1309 vennero scomunicati tutti i veneziani: il papa Clemente V non gradì l’invasione di Ferrara, sebbene a scopo di picnic di pasquetta. Non so se la bolla è stata revocata. Se io fossi un pio veneziano, farei bene ad informarmi.

Martin Lutero senza cappello

Nel 1521 papa Leone X scomunicò Martin Lutero. Ma questi non diede molto peso alla cosa. Aveva già in passato dato fuoco in pubblico ad una bolla papale in cui veniva minacciata la sua scomunica. Forse sentendo puzza di bruciato, evitò sempre di recarsi a Roma per discutere le sue posizioni. Alcuni secoli prima Arnaldo da Brescia non fu altrettanto scaltro, e la sua predicazione presso Roma non fu accolta come si sarebbe aspettato: fu scomunicato, impiccato, arso al rogo, sparso nel Tevere, ed infine gli dedicarono un busto sul Pincio.

Nel 1821 tutti gli aderenti alla carboneria sono stati scomunicati da Pio VII. Il papa successivo, Leone XII, o non lesse le bolle del suo predecessore, o non giudicò sufficiente la scomunica dei carbonari. Non potendo scomunicarli di nuovo, decise di condannarli. Un po’ come adesso il papa condanna qua e là quelli che non si comportano secondo suo gusto.

Nel secolo scorso per una serie di distrazioni la chiesa cattolica non ha scomunicato un discutibile politico romagnolo che nel primo dopoguerra inneggiava alle masse valori di scarsa etica cristiana ed intraprendeva azioni che i più definirebbero opposte alla volontà della chiesa, come autoproclamarsi dittatore, esercitare violenza sommaria di strada, invadere stati, deportare popolazioni, bonificare paludi, far arrivare treni in orario, costringere il fiero popolo italico a fare ginnastica. Per farsi perdonare per la mancata scomunica per quest’uomo, la chiesa ha cercato di stare un po’ più attenta sui regimi emergenti. Occasione che si è presentata nel secondo dopoguerra. Per stroncare sul nascere l’aderenza al partito comunista, la chiesa cattolica ha preso una iniziativa forte: impedire l’accesso ai suoi sacramenti a quelle persone che dei suoi sacramenti non volevano saperne più niente.

Ormai la chiesa cattolica ha perso questo gusto ruspante per bolle e scomuniche. Purtroppo è conseguenza del fatto che l’esercito del papa è fatto da elementi presi da un popolo di neutrali storici, per di più vestiti da pagliacci e armati di alabarde. Ogni dichiarazione del pontefice perde quindi un po’ della sua antica forza alle orecchie degli infedeli.

La mia storia di cattolico è finita. Inizia ufficialmente la mia vita da pirata pastafariano. La prossima santa celebrazione è già in programma per il giorno di festa di venerdì, nella nostra taverna preferita. Solito posto, orario più a caso.

Hasta la pasta, Alb

Delegazione pastafariana partecipa in incognito a cerimonia valdese

Ultimamente in casa si respira un certo trambusto religioso. Non da parte mia, sia chiaro. Ma la mia amatissima, come già detto qui, è ancora in cerca di una sua propria espressione religiosa.

Tempo fa avevamo passato una notte nella foresteria valdese di Torre Pellice, in provincia di Torino. Ci eravamo stati perché i nostri amici e compagni di vacanza amano profondamente le foresterie valdesi: sono economiche, dignitose, un po’ rustiche ma accoglienti. A conferma dell’amore dei nostri amici per le foresterie valdesi, devolvono interamente ala loro religione il loro otto per mille, pur di non darlo alla chiesa cattolica. Si sa, tra atei si fa così, almeno finché non si potrà darlo ai Pastafariani.

Mi ricordo poi che i valdesi di recente hanno fatto un’altra cosa decisamente originale: hanno sposato una coppia omosessuale. Rimango ancora stupito di come una chiesa possa dimostrarsi più laica e razionale di uno stato.

Partendo quindi dal nostro piacevole soggiorno e da queste considerazioni, la mia dolce metà ha pensato di iniziare a documentarsi su cosa ci sia dietro a questa foresteria. Insomma, vediamo un po’ come è il loro rapporto con il loro dio. All’inizio dell’indagine sospettavamo fortemente che fosse lo stesso dio dei cattolici, ma solo adorato in un modo un po’ diverso. Subito parte la ricerca informatica.

Ebbene sì: il dio è lo stesso. Cambiano un po’ di cose sulla fede, tipo niente madonna, pochi sacramenti, cose così. Cambiano molte cose sull’amministrazione della chiesa. Qui davvero notevoli. Già sapevo che i valdesi, che non credo navighino nell’oro, danno in beneficenza tutto quello che raccolgono con l’otto per mille, generosamente donato da tutti gli atei italiani di buon senso. Questo a differenza dei loro ricchi cugini cristiani, che preferiscono farci un po’ di tutto, in maniera piuttosto vaga. D’altronde, certe cose vanno accettate proprio per fede.

Scopriamo anche che i valdesi hanno i pastori al posto dei preti. E basta. Niente monsignori, diaconi, frati, suore, monache, prevosti, arcipreti, vescovi, arcivescovi, cardinali, papi. Solo pastori, che si limitano a condurre i loro riti e a dire i sermoni. Anche se chiunque, previo accordo col pastore, può dire il suo sermone. Giusto no? Una cosa un po’ più orizzontale. Credo che anche il loro dio, che non dispone di appendici spaghettose, possa apprezzare di poter stare un poco più vicino ai suoi fedeli, senza dover passare ogni volta dai signori di cui sopra.

Tutte le gerarchie ecclesiastiche poi sono scelte per via elettiva da valdesi di qualunque estrazione sociale. Credo ogni anno, i valdesi si riuniscono e votano i rappresentanti della loro chiesa. A loro volta votano questi rappresentanti votano per altri rappresentanti più importanti che decidono per un territorio più ampio e così via, fino ai rappresentanti importantissimi, che si ritrovano a Torre Pellice per decidere di tutto e tutti. Rispondendo però delle loro decisioni a chi li ha votati, un po’ come in teoria dovrebbe succedere con la politica. Una piccola annotazione: ad un certo livello il numero dei laici eletti deve essere maggiore o uguale a quello dei religiosi. Mica male come regola. Tutto ciò è un po’ diverso da quell’altra religione, come si chiama…. ah sì: il cattolicesimo, dove il voto non si sa nemmeno cosa sia, e se sei laico puoi solo pregare e ascoltare le opinioni del giorni della CEI al telegiornale della sera. Se la chiesa valdese è una democrazia, la chiesa cattolica è una monarchia assoluta. E la chiesa pastafariana è un’anarchia, beninteso.

Quanto letto di questa chiesa ci ha affascinato. Subito lei va a vedere gli orari delle loro cerimonie alla chiesa di Brescia. Ottimo orario: domenica mattina, alle dieci e mezza. Non troppo presto, e coordinato con l’aperitivo alla fine. Almeno, considerando una durata standard del rito, al momento ignota.

Io sono curioso, e mi offro volentieri di accompagnarla. Già mi vedo a proporre una alleanza pastafarian-valdese al loro capo. Mi riprometto anche di non portare abiti pirateschi, di stare attento e di comportarmi come un buon valdese. Non faccio altro che seguire i dettami della chiesa pastafariana: rispetta gli altri e bevi la tua birra in santa pace.

La chiesa valdese di Brescia rimane vicino alla statua del Garibaldi a cavallo, in fondo all’omonimo corso, giusto di fronte alle fermate delle corriere. Come da foto sotto.

C’è qualcuno: all’interno stanno cantando. Ci intrufoliamo velocemente. Nessuno ci guarda, ma la sensazione è che l’occhio vigile del loro dio ci abbia già scoperto. Se ciò è vero, si manifesta nello sguardo severo dell’unica persona rivolta verso di noi: l’austera pastora. Non guarda nessuno in particolare, come se il suo sguardo vagante le permette di ascoltare meglio il coro alla sua sinistra, ma è come se guardasse tutti. La sua somiglianza sia nell’aspetto che nel tailleur con la Gabanelli, giornalista conduttrice di Report, è affascinante ed inquietante allo stesso tempo.

Per cercare di non farmi scoprire, mi guardo in giro. Subito vedo l’oggetto più misterioso di tutta la chiesa, che senza tale strumento potrebbe addirittura passare per una normale chiesa cattolica (a parte la donna in tailleur sull’altare): un tabellone alla destra della pastora mostra numerologie cabalistiche, e solo dopo diversi minuti riesco a decifrarne il significato recondito.

Riporto di seguito l’enigma:

  89123

169123

14212

2131234

  54

113123

Effettivamente non ci era stata fornita una chiave essenziale per la soluzione. Questa arriva prontamente alla prima canzone corale. Alcuni fedeli valdesi si accorgono che non abbiamo il canzoniere. Ce ne forniscono prontamente circa sette o otto. Non vogliamo sembrare ingordi: ringraziamo e ci accontentiamo di uno a testa. Nel momento in cui la severa pastora indica il numero del canto, inizio a comprendere il sistema di decifrazione dell’arcano. Le parti sinistre dei numeri vanno ad indicare il canto da cantare. Le parti destre, in cui è visibile abbastanza facilmente un progressivo intero, indicano quali strofe vanno cantate, e quando dobbiamo fermarci. Meno male: almeno a cantare credo di riuscirci.

Ho trovato un oggetto uguale qui con tanto di inquietante manichino, ma dalla foto seguente la comprensione è molto più facile, a patto di saper leggere. Lo sguardo di Barbie Pastora Valdese poi nemmeno lontanamente mi ricorda quello dell’attenta pastora della mia funzione.

La pastora in ogni caso parla italiano da italiana. Le premesse sia per quanto letto in rete che per i presenti nella chiesa facevano pensare a tutt’altro. Ci sbagliavamo. Il coro canta ogni tanto qualche canzone in un una lingua angloafricana, accompagnata da incalzanti ritmi tribali. La pastora si diverte e invita tutti ad battere le mani con un tempo appena appena difficile, che già metterebbe in difficoltà gran parte dei cattolici oratoriali. La pastora invita alla versione più semplice, limitandosi a battere tre colpi e a saltare il quarto. Qualche africano più esperto si cimenta nella stessa struttura, ma con un paio di colpi in levare non da poco. Io seguo la proposta della pastora. Pecco miseramente sul finale, dando due colpi di troppo, appena camuffati dal finale a cappella del coro.

La celebrazione alterna un paio di chiacchierate della pastora ad alcune letture bibliche. Niente di nuovo, in base ai miei trascorsi da giovane cattolico. Ad un certo punto vengono fatti gli annunci degli eventi presenti e futuri della comunità. Pare che sia in corso proprio in questi giorni un megaincontro degli alti vertici a Torre Pellice. Quindi quella che vediamo non è la vera pastora, ma una sua sostituta, ospite della chiesa. Quella vera è al megaraduno. Poi ci dicono che un signore importante della chiesa valdese ha la moglie che è in ospedale per una operazione, e tutti i fedeli vengono invitati a mandare email, sms o a telefonare per augurare pronta guarigione. Che cosa strana. Carina però, credo. Non ho chiesto il numero della signora: non avrei saputo esattamente cosa dire, anche se forse avrebbero apprezzato.

Quando si invitano i fedeli a lasciare una offerta, parte una musica che concilia la generosità. La ragazza che gira col cesto si dirige subito con sicurezza verso la pastora: è dato per scontato che anche lei contribuisca. A quanto pare ho trovato un’altra differenza: l’elemosina non serve a pagare il suo stipendio, altrimenti il suo gesto perderebbe un poco di significato.

All’improvviso, dopo altre canzoni e discorsi, la celebrazione finisce. Niente comunione e rivisitazioni di miracoli vari secondo le antiche tradizioni cristiane. Niente segni della croce o crocettine tracciate col pollice sulle parti del corpo giudicate più degne dell’ascolto del vangelo. Semplicemente qualcosa come un gioioso arrivederci. E la reazione dell’assemblea non è il classico stampede di bestiame a cui ero abituato con le messe cattoliche, roba da furiose sgomitate verso la porta, condite da frasi tipo “Eh che predica lunga! Non lo sa il prete che la domenica abbiamo su polenta!?” Qui anzi sembra che i fedeli non vedessero l’ora di iniziare a fare un po’ di rumore e confusione, attraverso una serie di abbracci, baci e chiacchiere nel centro della chiesa. Non ero abituato al concetto di comunità con la chiesa cattolica. Per come vedevo io i partecipanti alle funzioni, era più l’aria di una visita dal medico per la supposta domenicale.

Non so se devo iniziare anch’io ad abbracciare qualcuno o a presentarmi. Mi sveglia dall’imbarazzo la mia amata, che mi guarda divertita e mi suggerisce “andiamo?” Rispondo di sì. Sono solo due metri dall’ingresso, completamente libero dai fedeli che sono accalcati in mezzo all’edificio. ce la possiamo fare.

In realtà no: non ce la facciamo. Anche se sono solo due metri ci bracca subito la solerte Augustina, ovvero la responsabile della chiesa. Una donna di colore il cui classico ineffabile sorriso ci cattura senza pietà. Avrei voluto mascherarmi da turista lontano dalla mia chiesa valdese, ma non so se avrei retto alla distanza. Sicuramente Augustina mi avrebbe chiesto di quale chiesa, e se anche azzeccavo una chiesa esistente, avrei dovuto rassicurarla sullo stato di salute di un qualche anziano pastore. La mia donna previene questo mio rischio di sbandamento confessando il suo reale stato di apolide religiosa, sorvolando però sulla mia felice appartenenza al credo pastafariano. Dichiariamo come la cerimonia ci sia piaciuta, e sempre con il più sereno dei sorrisi Augustina ci concede un’uscita dignitosa dal tempio, concordando di rivederci la domenica dopo.

Conclusioni. Sì, un po’ mi sono divertito. No, non credo che abbandonerò la Chiesa Pastafariana. Boh, magari un altro salto lo faccio ancora. Si sa mai che ne nasca davvero un gemellaggio. O che riesco a capire come si può fare per ottenere il riconoscimento all’otto per mille.

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Grazie al sito free-stainedglasspatterns.com per il bellissimo Flying Spaghetti Monster che ho usato in testata. Se avete bisogno di un disegno gratuito per una vetrata in casa vostra da cui Sua Altissima Casoncellosità possa sbirciarvi con particolare amore, avete trovato il sito giusto.

Sulle lunghe attese tra una religione ed un’altra

Ormai otto giorni scrivevo questo articolo, dopo essere stato in coda all’ufficio postale per consegnare la mia lettera per il parroco alle Poste Italiane, che mi raccomandavano che gliela avrebbero consegnata a nome mio e che subito dopo mi avrebbero comunicato l’avvenuta consegna. Il tutto per la modica cifra di tre euro e novanta, postino compreso.

Viaggio non difficile: casa mia dista 450 metri dall’ufficio postale e 77 metri dalla casa del parroco. Tra i due però i sensi unici complicano un po’ le cose, e si arriva alla ragguardevole distanza di 700 metri. Diciamo che Euclide avrebbe qualcosa da dire riguardo alla geometria delle nostre strade.

A suo tempo mi avevano lasciato questo:

Interessante, anche se ancora non ha niente del sapore dello sbattezzo religioso. Non a caso è avvenuta una mini apparizione del mio Flying Spaghetti Monster domestico, giusto per dare un po’ di sapore.


Sono passati otto giorni, ma ancora il postino non mi ha comunicato l’avvenuta consegna della mia lettera per il parroco.

Accidenti.

Non credo voglia dire che si stia vendicando del fatto che non ho  preso il supplemento consegna veloce a mezzo aereo. Anzi: dovrebbe ringraziarmi che non lo costringo a fare i famosi 700 metri usando questa antica e divina uniforme greca

Può anche essere che non mi ha trovato in casa, e che vuole consegnarmi di persona la sua conferma di recapito. Giusto.

Ho deciso di controllare però sul sito delle poste lo stato della consegna, perché mi ricordavo di un servizio di tracciabilità, o qualcosa del genere. Mi lancio entusiasta su poste.it, ma subito mi areno in una pagina che, complice che siamo in agosto, sembra più il sito di un bagno della riviera romagnola. Date queste premesse, anche solo al pensiero di trovare il servizio che cerco all’interno di questo caos mi viene male. Ricorro quindi all’oracolo, che velocissimo mi mostra la soluzione del labirinto.

Ottimo. Vado subito qui e chiedo dove sia la mia raccomandata. Ci metto i numerini che vedo sul foglio, e quello che ottengo mostra diversi lati curiosi.

Capisco perché ancora non ho ricevuto la notifica di consegna: perché ancora non è stata consegnata! Sembra che la mia lettera ci abbia messo dal 28 luglio al 2 agosto per andare dal centro postale di Gussago allo sportello del centro postale di Gussago, dove tutt’ora staziona. Fatto questo, il bradipo che si è occupato di questa perigliosa consegna è sicuramente svenuto esausto, e starà ancora cercando di recuperare le forze per la fase successiva.

Speravo di trovare qualche cospirazione della sacra inquisizione cattolica dietro questi clamorosi ritardi. Sono invece di fronte alla normale amministrazione di un ufficio pubblico italiano. Di questo passo credo che anche questo prete ha tutto il tempo di lasciarci per lidi migliori. No: non è una cattiveria gratuita. Quello prima mi è morto davvero in fase di quasi-invio di un’altra raccomandata. Non l’avete letto? L’ho scritto qui. E poi continua qui.

In conclusione, credo che quello che avete letto è l’articolo più inutile non solo di questo sito, ma forse dell’intero mondo Internet: tempo buttato mio a scriverlo e vostro a leggerlo, solo per dirvi che un postino in Italia impiega più di una settimana a percorrere settecento metri. C’era bisogno di scriverlo? E poi: questo sito non è un sito religioso che vuole spiegare la bellezza e la profondità del verbo pastafariano rispetto a tutte le altre false religioni? O si vuole fare concorrenza ai mille siti di denuncia sui malcostumi italiani?

Quindi scusatemi: salvo serie novità, non scrivo più niente sulle mie lunghe attese da cambio di religione. Avete anche voi i numeri per vedere quando mi consegnano la ricevuta di ritorno. Dateci un occhio, che quando arriva poi due righe magari le scrivo ancora.

Per adesso basta: mi autopunisco andandomene a dormire. Che Sua Altissima Sugosità vegli sui nostri sonni pirateschi accarezzandoci con le Sue Spaghettose Estremità!

Hasta la Richiesta, Alb

l’atto pratico dello sbattezzo, tra avvistamenti e raccomandate

Dopo aver scritto questa pagina lunedì scorso, ho iniziato le pratiche tecniche per invitare finalmente il parroco di Gussago a rimuovere il mio nome dal suo registro dei battezzati.

Ho scaricato per l’ennesima volta da qui il documento dello sbattezzo. Grazie UAAR per renderci facili e comprensibili le sottili questioni stato/chiesa in cui noi comuni sprofonderemmo miseramente. Grazie decreto legislativo 196 del 2003: con te i nostri diritti di confessione religiosa si camuffano da diritti alla privacy.

Il documento dello sbattezzo non è proprio bellissimo, anche se bellissimo è il compito che gli viene assegnato. Sembra un modulo per la disdetta di un qualsiasi servizio a pagamento. Ecco, è così, nella sua burocratica sterilità:

sbattezzo modulo per parroco


Leggendolo, uno può aspettarsi di trovarlo pieno di acide considerazioni contro la chiesa cattolica, come scritte dalle stesse mani che scrivono decine di articoli al giorno al gusto fiele e veleno su uaar.it . Non è così: non ci troverete una sola malignità. Pura formalità burocratica, con ripetizione alla nausea della codice segreto 196/2003, la chiave che apre la via all’apostasia. A furia di cercare però forse c’è una piccola parte di involontario umorismo: quando si chiede al povero parroco che il mittente rinuncia “fin da subito a qualsivoglia pausa di riflessione o di ripensamento in ordine alla soprascritta istanza”. Mi evoca l’immagine di migliaia di vecchi parroci di campagna, sparsi in tutta Italia, terrorizzati dal dover riportare al proprio superiore l’orrore burocratico della lettera che tengono in mano, al punto di appellarsi alla disperazione con una “pausa di riflessione o di ripensamento”. Le estreme armi del clero contro chi non teme scomuniche ed anatemi.

Letto e riletto, ci ho pensato un po’ su, e alla fine ho deciso di scrivermi a mano tutto quanto, come a voler dire al parroco che noi empi senzadio siamo comunque abbastanza alfabetizzati da poter buttar giù una lettera dattiloscritta senza troppi errori, e senza andare troppo storti con le righe. E nel contempo anche di offrire un po’ di conforto umano al prete che la riceve, come a dire che non sono una macchina, ma che ho dedicato un po’ del mio tempo per rispetto al tempo che lui nella sua sofferenza dedicherà a me. Poi magari manderà anche la lettera al grafologo pontificio a Roma, per capire che orribile personalità malvagia e contorta sta dietro ad una richiesta tanto disumana. Se lo fanno, magari scopriranno anche che sono un ragazzo normale con irriverenti aspirazioni piratesche, un ottimo rapporto con un Dio Invisibile e Spaghettoso e dotato di un gran senso dell’umorismo, e che semplicemente non ne può veramente più una lunga serie di comportamenti disgustosi della chiesa cattolica apostolica romana.

Ecco qua il risultato, così come è stato fotografato dal potente satellite del Vaticano:

sbattezzo autografo

Ci ho messo un po’ a scrivere tutto, e due fogli invece di quello solitario della versione digitale. Probabilmente è anche un po’ meno comprensibile, per quanto mi sia sforzato di dominare l’estro della mia mano mancina. Non ho fatto nessuno scarabocchio, ma non ho rispettato molto il mio secondo proposito, ovvero quello di fare le righe dritte. Pazienza, chissà che idea si farà il grafologo del papa. Sono però molto contento di come il secondo foglio sia pieno per tre quarti, che reputo un’ottima percentuale conclusiva, e mi riempie di orgoglio la mia firma finale, che ultimamente trovato molto travagliata ed impoverita di personalità a causa di una serie di aride ripetizioni burocratiche.

I due fogli sono finiti piegati in tre parti a fisarmonica e imbustati con la fotocopia della carta di identità. Quindi orgogliosamente portati in pausa pranzo all’ufficio delle poste.

E qui potrebbe essere già il primo capitolo della saga di Ulisse. Questo articolo non vuole parlare dei disservizi di uno stato vittima di se stesso, ma quando vado alle poste so già che può capitare che tutto vada per il meglio, ovvero che banalmente non succeda niente di strano, o che invece qualcosa vada storto, anche senza che si arrivi ala rapina. Nel mio caso ho beccato il solito raduno di anziani che hanno deciso di festeggiare con orgoglio una qualche loro misteriosa ricorrenza andando a richiedere servizi all’ufficio postale proprio quando il non-pensionato come me esce dal lavoro. Il numero che mi ritrovo in mano dista di diverse decine da quello sul tabellone, e gli sguardi desolati della gente in coda mi evocano immagini di film sull’immigrazione dei nostri compatrioti ad Ellis Island. Bene, grazie, forse è meglio tornare un’altra volta.

Controllo gli orari di chiusura, aspettandomi il peggio. Ma no! Piacevolissima sorpresa: le poste chiudono alle 19:15. Insperato davvero: posso tranquillamente tornare all’uscita dal lavoro.

Così accade. Sorpresa! Poste chiuse. Ma come!? Una gentile signora, pure lei impegnata come me a citare tra i denti il nome di dio invano, mi fa notare un secondo cartello, meno evidente del primo e posto ad altezza cane, che recita qualcosa come “orario estivo: dalle 8:15 alle 13:15”. O qualcosa del genere. Bravi, grazie. Ritiro quanto detto prima. E mi chiedo da cosa possa nascere il rancore che si nutre verso i dipendenti statali. Boh, chissà.

Che poi le mie non sono altro che malignità dettate dall’ignoranza: se d’estate i dipendenti delle poste lavorano meno ore al giorno, sono più che sicuro che a ciò corrisponde una detrazione proporzionale dello stipendio. Per forza. Quindi non stiamo lì a perderci del tempo: si torna di sabato mattina. Prima però controlliamo bene gli orari del sabato, che non si sa mai. E facciamo anche un paio di giri dell’edificio, alla ricerca di altri eventuali fogli informativi su orari e modalità.

Il sabato decido di partire preparato. Mi porto da leggere e da bere. Infatti tempo tre minuti e vengo servito. Quando poi chiedi di fare una raccomandata compreso nel prezzo c’è lo sguardo miserevole e accondiscendente della impiegata che ti dice “guarda che per la raccomandata devi prima compilare questo!” E tira fuori un foglio da sotto la sua scrivania. Non ho ben capito se si aspetta che io prima ancora di essere servito scavalchi la loro porta da saloon, giri dietro alla loro scrivania e mi prenda un foglio da solo e mi metta a compilarlo, di modo da arrivare perfettamente preparato quando mi trovo di fronte a lei. Dio degli Spaghetti, aiutami Tu.

Compilato tutti i fogliettini, controllato, consegnato e pagato. No grazie, signora, niente posta celere. Sì: da Gussago a Gussago. (Cambia qualcosa se è da Gussago a Rodengo?) Mi viene da chiedermi cosa accadrebbe se dovessi chiedere la posta celere o aerea per spedire una raccomandata al parroco che di fatto abita giusto a centocinquanta metri da casa mia. E che anche oggi ho incontrato che mi passava davanti mentre uscivo di casa per mandargli una lettera. Tengo questi misteri per me: già tre euro e novanta mi sembra un prezzo più che sufficiente per il servizio richiesto.

Un paio di pagnocchine dal fornaio e torno a casa. E incontro ancora il parroco. Gran Dio della Pasta, ma mi segue? O mi precede? E come fa poi, che lo becco sempre in senso contrario al mio, roba che se io vado lui torna, e se io torna lui va? E poi come fa ad essere così veloce, con quella sottanona bianca… Questi misteri un po’ mi lasciano perplesso, ma me li scrollo di dosso pensando che la ricerca del divino nell’inspiegabile è un tipico vizio delle religioni arcaiche come quella per cui giusto oggi ho richiesto di non farne più parte. Basta, questa pecorella smarrita non vuole più essere salvata, e avete tempo quindici giorni per dimostrare di averlo capito. Beee beeee beeee.

Grazie, buonanotte.

pecora e pecorino