Sul vile furto di un bene piratesco ad opera di malvagi emissari coloniali

Per dovere di cronaca mi trovo costretto a riportare di un increscioso episodio che mi è occorso pochi giorni fa. Episodio che più che sofferenza mi ha causato un rancore ancora maggiore verso la già mal sopportata classe dei burocrati coloniali, gente malvagia ed infida, che usa mezzi furfanteschi tali da apparire sleali anche al più ruvido dei bucanieri.

 

 

Andiamo con ordine. Dovete sapere che per procurarmi di che vivere mi trovo durante il giorno a prestare servizio presso un’officina di paese. Sono quello che si occupa di far funzionare le comunicazioni di informazioni interne ed esterne attraverso l’uso di macchine costruite da altre aziende con dei derivati della silice.


 

La storia di cui voglio parlarvi ha inizio ormai circa un mese fa, quando il mio collega ed amico mi avverte che avremmo ricevuto la visita di due emissari coloniali. Il mio collega si sofferma anche a sottolineare bene l’importanza di tali figuri: non sono semplici visitatori, ma nientemeno che due inviati dal ministero, che intendono controllare che tutto quello che noi svolgiamo avvenga nel pieno rispetto delle regole da loro imposte. E nel caso venga trovato qualcosa che non incontri i loro gusti, ci inviteranno a correggere il nostro operato attraverso corpose sanzioni pecuniarie. Da tanti anni pare non avessero trovato una buona occasione per questa visita di cortesia, grosso modo per una generazione. Era proprio ora che tornassero a farci apprezzare l’amorevole e materna presenza del nostro stato anche qui nei freddi confini nordici dell’impero, perché va bene che siamo bravi e volenterosi, ma in trent’anni anche il più motivato ed ispirato dei capitani può perdere, seppur di poco, la Trebisonda.

 

I nostri emissari però fanno precedere il loro arrivo da una richiesta: il mio collega mi rende noto che, una volta giunti in luogo, è il caso che oltre al canonico macchinario per la generazione di fogli scritti, gli venga fatto trovare anche uno di quegli strumenti portatili che vengono usati per produrre, modificare e direzionare tali stampati. La procedura mi è nuova: so che in genere la prassi vuole che il visitatore, chiunque esso sia, porti con sé il suo macchinario portatile. Il nome stesso ne suggerisce la trasportabilità. Spesso poi il suo nome viene accompagnato anche dal termine “personale”, e non a caso: tale è l’affezione e la personalizzazione dovuta all’utilizzo dello strumento, che in poco tempo ogni individuo tende a considerare “personale” il proprio apparecchio, e non vede di buon occhio l’uso dello stesso da parte di altri personaggi. Converrete con me che quando mi è stato chiesto di fornire questo oggetto all’emissario, e che quindi mi sarei privato del mio per un tempo indefinito, la cosa non mi ha entusiasmato. Ma tant’è, prepariamo la macchina e facciamo in modo che nulla sia abbia a che dire sul nostro operato.

 

Puntuali come le cattive notizie arrivano due di questi inviati. Si impossessano subito del mio apparecchio. Io sapendo che queste persone sono spesso vettori di scocciature e cattive notizie, decido di portare a termine un lavoretto per lungo tempo rimandato, studiatamente presso il più remoto deposito merci della provincia di proprietà del mio padrone. Veloce come il percorso me lo consente mi metto in marcia, già sapendo che la relativa pace e tranquillità di cui avrei goduto quella mattina sarebbe stata quanto mai effimera, e che dal pomeriggio seguente non avrei più avuto altro che magagne e scocciature dai già citati signori del ministero.

 

E così è: mentre sto armeggiando nella mia remota posizione con macchinari più fisici che intellettuali, già mi giunge la richiesta della mia presenza nella sede principale. Non viene nemmeno citato il motivo, ma semplicemente il mio ruolo:

 

– E’ richiesto l’uomo che governa agli strumenti di comunicazione e di informazione!

 

Purtroppo sono io. Prolungo per quello che posso la mia opera locale, e già nel primo pomeriggio mi appresto ad andare incontro all’ignoto e fatale destino, chiedendomi quale cosa tanto grave possa richiedere la mia esclusiva presenza.

 

Nel pomeriggio sono di nuovo nella sede principale. I miei coscienziosi colleghi mi rinnovano la richiesta dei due emissari, e quindi mi armo di coraggio per varcare le soglie dell’alloggio dove i due signori sono stati stipati.

 

La stanza è minuta, ma già trabocca di grossi tomi e pile di carta stampata, sui mobili, per terra agli angoli della stanza e sul grosso tavolaccio centrale. Oltre a ciò, sul tavolo stesso c’è ovviamente il mio spaventato macchinario portatile. Girato di fronte a lui un suo simile, reso arrogante dalla volgare presenza di una scritta stampata sul dorso, che ne certifica la proprietà del ministero stesso. Tra i due strumenti e due pile di carta c’è anche il mio macchinario stampatore, nemmeno lui felicissimo di essere stato abbandonato nelle mani di siffatti personaggi. Ai lati lunghi del tavolo appoggiano le loro natiche su delle sedie di vimini i due temuti signori. Un uomo ed una donna, che potrebbero anche sembrare delle persone normali, forse addirittura modeste nell’aspetto, non fosse altro che il titolo con cui entrano in ogni opificio trasforma la loro discreta presenza fisica in quella di giganti onnipotenti. La mia collega mi segue immediatamente, forse per verificare che mi comportassi in maniera consona almeno alla prima visita. Con sé porta un vassoio per ristorare il loro dopopranzo con il miglior caffè che la nostra cambusa è in grado di offrire.

 

Dopo le presentazioni di rito, permeate da una ambigua cordialità, finalmente vengo reso partecipe del problema che ha richiesto la mia presenza urgente in quel luogo. Pare che tutti gli sforzi fatti dal nostro signore per dare corpo cartaceo a degli archivi presenti nel macchinario che gli abbiamo fornito sono stati vani. Per quanto lui si ostini a chiedere allo strumento di parlare con la stampatrice, i due si ignorano bellamente. E già si scusa per avermi dovuto chiamare e disturbarmi, ma nel contempo fa delle lievi e garbate insinuazioni sulla qualità degli apparecchi che gli abbiamo fornito.

 

Come spesso accade, il problema in questi casi è abbastanza banale, e lo risolvo rapidamente. E pure come spesso accade riscuoto grande ammirazione, come se invece che aver risolto il guaio attingendo alla mia esperienza di tecnico, mi fossi rivolto a delle forze arcane, facendo questo di me una sorta di mago o stregone. E così vengo subito definito, ed avendo certificato come io sia in possesso di doti soprannaturali che mi semplificano qualsiasi tipo di problema, il nostro amabile signore si sente subito autorizzato ad affibbiarmi degli incarichi di ben altra entità. Sono un mago, e quindi posso fare tutto quanto ed in tempi ristrettissimi. Quindi posso anche fare dei lavori di una noia mortale, oserei dire da segretaria, di cui sarebbe capacissimo lui, se solo ne avesse voglia.

 

Già la seconda visita però è accompagnata dalle più esplicite lamentele riguardo al macchinario portatile che gli abbiamo fornito per lavorare. Pare che non incontri il suo gusto, perché lui è abituato a quell’altra versione, quella prima. Da me si attende conferme che la versione precedente, quella da lui amata, è migliore. Mio malgrado mi ritrovo a dover elencare i pregi del vecchio rispetto al nuovo.

 

La sua avversione per lo strumento si manifesta chiaramente ed in modo inequivocabile il giorno seguente, quando il mio apparecchio si rifiuta di comunicare attraverso l’aria. E’ chiaramente un sintomo di stress, e mi sento in colpa di averlo abbandonato in queste mani. Cerco di rincuorarlo come posso, ma di fronte alla sua ostinazione mi vedo costretto a ricorrere alla vecchia comunicazione via cavo. Vado nella stanza più vicina fornita di un allaccio ed inserisco un capo del mio cavo chilometrico. Attraverso quindi il corridoio sbobinando la matassa, e quindi rimetto il mio macchinario nella possibilità di lavorare, seppur controvoglia.

 

Ma questo sistema non piace all’emissario, e i suoi dubbi sulla bontà dei nostri strumenti sembrano essere confermati dalla presenza di questa flebo che pompa le sue informazioni attraversa il corridoio, percorrendo una buona parte della sua stanza. Il giorno seguente giunge col suo apparecchio personale, che a quanto pare possedeva ma che per qualche oscuro motivo ha preferito da principio non usare. La conseguente richiesta è ovviamente che anche questo apparecchio possa parlare con il generatore di carta scritta. Risolto anche questo problema tecnico, mi viene fatto notare gentilmente che ancora sono in attesa che venga svolta la loro ultima richiesta. Mi scuso e mi congedo, per procedere all’opera il più rapidamente possibile.

 

E così la mia permanenza in officina diventa un continuo assecondare le loro richieste. E questo non solo per me, ma per gran parte dei miei colleghi. I due garbati visitatori sembrano godere di una voracità di informazioni senza pari, e ogni volta che mi accingo a varcare la soglia della loro stanza, mi ritrovo a passare qualche minuto in coda in compagnia di altre persone, tutti in attesa di essere ricevuti a esporre i nostri lavori.

 

Lavoro dopo lavoro, finalmente sembra che i signori abbiano trovato soddisfazione, e stiano per lasciare i nostri lidi. Lo capisco dal fatto che la richiesta che mi fanno questa volta è quella di aiutarli a far calzare una enorme tabella contenente delle lunghe serie orizzontali di dati nel loro foglio di rapporto, che malauguratamente non può essere altro che stretto e verticale. Di fronte all’impossibilità geometrica della cosa, forse galvanizzato che le parole “rapporto finale” mi fanno proprio pensare alla fine delle nostre reciproche frequentazioni, azzardo una proposta veramente idiota, ovvero che l’unico modo per far entrare la tabellona orizzontale nel rapporto verticale sia quello di dividerla in grossi pezzi verticali. Lasciando poi al lettore del rapporto la gioia di riassociare le righe mentalmente da un trancio all’altro del documento.

 

Durante questa ultima surreale conversione mi scappa l’occhio su di un particolare che mai avrei voluto vedere: se il mio apparecchio portatile era ormai ripiegato da due settimane, in punizione, in un angolo del tavolo, noto con orrore che il suo scatolotto di alimentazione è finito per non so quale motivo in dote al suo collega ministeriale, che ne fa uso garrulo con manifestazioni di gaie lucine, mentre io gli passo le istruzioni per sventrare la citata tabella sotto la compiaciuta supervisione dell’emissario. Se ho notato che la cassetta di alimentazione è mia, è per un semplice quanto inconfutabile motivo: una vistosa etichetta da me firmata e datata, sui cui troneggia centrale in Sacro Pesce Pirata Pastafariano. Da non molto tempo infatti ho preso la saggia abitudine di marchiare ogni strumentazione che abbia un valore maggiore di zero unito ad una superficie piana e sufficientemente ampia. Ben conscio della volatilità delle cassette di alimentazione degli apparecchi portatili, ho bollato con la Sacra Etichetta non solo il macchinario, ma anche il più minuto scatolotto da cui trae il nutrimento necessario per operare in continuità.

Questa è la foto di uno di questi scatolotti di nutrimento, con una etichetta del tutto simile a quella citata

 

Da qui l’orrore alla vista dello stesso collegato ad un altro macchinario. Ed anche lo sconcerto: da che opero nel mio settore, a memoria mia è estremante raro che due diversi apparecchi portatili, seppure usciti dalla stessa fabbrica, possano operare con lo stesso scatolotto di nutrimento. Questo perché i malvagi produttori di questi macchinari si ingegnano a creare spinotti sempre diversi, e a far operare gli stessi apparecchi con livelli di alimentazione pure differenti tra loro. Il tutto per il misterioso ed insano disegno di rendere altamente remota la possibilità che lo stesso scatolotto possa operare con successo con due macchinari, seppure dello stesso costruttore. Ed ecco di fronte ai miei occhi la prova terribile che se questo episodio rarissimo doveva mai accadere, sarebbe accaduto proprio nel caso in cui non doveva, ed il più sciagurato.

 

Non sottolineo la questione al gentile funzionario. Forse per non urtare la sua sensibilità con una domanda indiscreta che avrebbe potuto mettere in dubbio il suo onesto e irreprensibile operato di attento emissario del ministero. Che figura avrei fatto, esponendo quella che poteva sembrare come una forma di prevenzione al furto, quando la mia etichetta pastafariana timbrata e firmata troneggiava con tanta evidenza sopra la faccia superiore dello scatolotto? Il mio sarebbe stato un atteggiamento decisamente poco elegante, se non ostile.

 

Inoltre c’è anche un secondo motivo, anche più sottile. Sotto sotto mai avrei voluto che una bazzecola come questa potesse prolungare anche solo di pochi minuti la permanenza dei due dottori presso la nostra officina. Sarà, ma mentre scendo le scale per tornare nella mia stanza, non mi sento comunque tanto tranquillo.

 

Il ritorno dei due signori prende corpo solamente il giorno dopo. Pare che qui non abbiamo più niente da fare. Il mio collega mi previene, portando lui stesso nella mia stanza le mie apparecchiature. Quando mi accorgo che manga la scatola di alimentazione, non mi metto nemmeno a cercarla troppo in giro. Alla prima occasione che vedo il mio collega, gli pongo la domanda, senza sperarci troppo, se avesse trovato anche il mio scatolotto. No, non l’ha trovato. Nemmeno il tempo di dirgli di lasciar perdere, e lui generosamente torna sul luogo del delitto, per dedicare una ricerca più accurata dello stesso. Niente da fare: l’oggetto è sparito.

 

A questo punto gli spiego perché le mie speranze erano già poche prima ancora che lui mi portasse gli altri due macchinari. Lui comprende. Gli pongo la domanda ovvia e stupida, se è il caso o meno di contattare l’ufficiale ladro. No, mi dice, non tiriamoci la zappa sui piedi.

 

La storia finisce qui. Con un onesto funzionario del ministero, che nell’esercizio delle sue funzioni si è trovato nella condizione di impossessarsi di un oggetto chiaramente non suo, e non si è lasciato sfuggire l’occasione. Dicesi furto. Ed è un reato, per le leggi di quello stato di cui il nostro personaggio si fa garante con la sua assidua ed ingombrante presenza nella nostra piccola realtà privata. Credo sia anche peccato per diverse religioni, vedasi l’articolo sette di quella che con tutta facilità è proprio la sua, di religione, dato che è tutt’ora quella più ampiamente diffusa sul nostro territorio. Se fosse stato pastafariano, avrebbe certamente riconosciuto il Pesce Pirata, e dopo un piacevole scambio di urlacci pirateschi e pacche sulle spalle avremmo concordato tempo e luogo per una sana bevuta serale in una taverna di paese. Ma così non è stato.

 

Ho già provveduto a rimpiazzare il bene piratesco rubato ordinandone un suo gemello allo stesso fornitore del primo. Neanche a dirlo, dopo la mia prima lettera con la richiesta di offerta, il fornitore deve richiamarmi per una serie di domande inquisitorie su come dovesse essere fatto di preciso tale prodotto. Accidenti, siamo al colmo: pare che lo stesso identico macchinario portatile possa avere modelli diversi di scatolotti di alimentazione, ovviamente di tipo profondamente diverso tra loro. Da non credere.

 

Rimangono da tutto ciò un dubbio ed una speranza. Il dubbio è se l’abile furfante si sia accorto o no del fatto che si stava appropriando di qualcosa che non era suo. E di sicuro che se non se ne è accorto subito, cosa comunque difficile, se ne sarà comunque accorto dopo. Ladro conscio o inconscio, sempre ladro è, e la presunta innocenza durante l’atto del furto è una debole attenuante, una volta maturata la consapevolezza del gesto. La speranza è quella che o il mio o il suo dio prendano dei provvedimenti, e non dopo morte, come è prassi di entrambe le divinità, ma già in vita. Il suo dio perché così sta scritto: “settimo: non rubare”, e se si lasciasse scappare una punizione terrena come ai suoi vecchi tempi, non sarebbe certo male. Il Mio Dio è certo meno rancoroso e vendicativo, ma in questo caso c’è di mezzo un oggetto Benedetto da una Sacra Etichetta che è caduto in mani nemiche. Sarebbe giusto che l’oggetto stesso venga purificato con un piccolo incendio a seguito di esplosione. Magari causati proprio dalla non perfetta compatibilità tra i due strumenti. E se poi l’episodio dovesse danneggiare non solo lo scatolotto di alimentazione suicida, ma anche il parassita macchinario portatile collegato, non credo che sarebbe proprio malaccio.

 

Saluti rancorosi, il devoto Alberto