Quando si amano le finestre

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Un pirata guardone ci mostra con un esempio il funzionamento di una finestra

Le finestre sono una grande invenzione. Sfruttando la misteriosa capacità che non mi spiego bene dei loro materiali, permettono alla luce, alle imprecazioni e agli sguardi indiscreti di passare attraverso di loro senza troppi problemi, fermando nel contempo altre cose più materiali, come i gatti, la polvere o il freddo.

 

In onore di queste incredibili capacità, uno dei più noti filibustieri della Valle del Silicio ha deciso di consacrare a loro nientemeno che un’intera serie di sistemi operativi, e questa scelta felicissima ha fatto di lui l’uomo che meno di chiunque altro al mondo ha problemi ad arrivare alla fine del mese. Per mantenere inalterato lo spirito discriminatorio delle finestre originali, anche queste sorelle digitali perseguono nel loro impegno di decidere cosa può entrare nel vostro computer e cosa no. Per fare degli esempi, non potranno mai entrare la possibilità d’uso da parte degli utenti non esperti senza avvalersi dell’aiuto di un tecnico, o la compatibilità con altri sistemi operativi. Esempi di cose che invece possono entrare: intere famiglie di virus informatici, la scarsa chiarezza nell’uso tale da mantenere gli utenti in un costante stato di paura ed incertezza ed infine, cosa non da poco, la certezza di avere un sistema costantemente in ritardo rispetto a varie alternative, spesso pure gratuite, oltre che soggetto ad elevata obsolescenza programmata.

 

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L’interno di un computer dopo l’aggiornamento al sistema operativo successivo

Per chi ancora non la conoscesse, spenderei alcune parole sull’obsolescenza programmata, ovvero quella brillante invenzione del ventesimo secolo consumista che permette ad un prodotto di essere considerato da rottamare molto prima di quanto sarebbe logico pensare in base alle sue caratteristiche, o di quanto ci saremmo aspettati al momento dell’acquisto. Se prendiamo ad esempio il mio spremiagrumi, la sua obsolescenza programmata non è determinata, come verrebbe da pensare, dal fatto che ha spremuto l’equivalente di una vasca olimpionica di succo d’arancia, al punto che l’acido stesso dei vitaminici frutti ne ha corroso l’intera struttura. No, la sua obsolescenza è determinata dalla rottura di un pezzettino di plastica interno su cui poggia con forza l’intero corpo rotante del mozzo spremitore. Verrebbe da pensare che questa sia una rottura prevista e facilmente evitabile in cui saranno incorsi tutti quelli che come me hanno comprato per pochi euro lo stesso modello di spremiagrumi, e che serva a costringerci a comprarne un altro di qualità paragonabile ma di altra marca. Se prendiamo invece i computer, l’obsolescenza programmata funziona così: si compra un computer, ed insieme a questo ci si ritrova sopra il sistema operativo delle finestre, anche se l’azienda che l’ha fatto non è la stessa che ha fatto il computer. Quindi si porta a casa il computer e lo si usa per qualche anno, vantandosi per i primi con gli amici di quanto sia bello e veloce, e ricevendo i complimenti per l’acquisto oculato. Dopo qualche anno ci si accorge che lo stesso computer, per fare le stesse cose che venivano fatte all’inizio quando era nuovo, impiega diversi ordini di grandezza di tempo in più rispetto all’inizio. Tipo che quando era nuovo bastava premere il tasto di accensione e neanche il tempo di sedersi e già un suono garrulo ci avvertiva che le finestre erano tutte pronte, bramose di scattare ai nostri ordini. Ora invece quando lo si accende si fa a tempo a prepararsi un caffè e a fare una lunga telefonata. Se poi si è impazienti e si torna un po’ prima del tempo si avvertiranno dei rumori preoccupanti provenire dall’interno del calcolatore, come se dentro la struttura metallica tutte le schede di silicio su cui correvano invisibili e silenziosi gli elettroni fossero state sostituite da tapis roulant su cui si affannano dei criceti asmatici. Cosa ci avete fatto da allora, per ridurlo così? Probabilmente niente, a parte usarlo con gli stessi programmi che avete usato fin dal primo giorno che l’avete comprato. Questa si chiama l’obsolescenza programmata.

 

Tutte le caratteristiche citate hanno tributato rapidamente un grandissimo successo al sistema operativo delle finestre, complice solo in parte in fatto che comprare un personal computer senza le finestre preinstallate e cosa quasi impossibile da qualche decennio a questa parte. Se però vogliamo farne a meno e proviamo a chiedere indietro i soldi, allo occorre prepararsi a fronteggiare non tanto gli avvocati delle finestre, quanto quelli delle aziende che hanno prodotto il computer. Già, perché cambiare spesso computer non aiuta solo l’azienda fondata dall’uomo più ricco del mondo, ma anche le numerose aziende che prosperano costruendo computer sempre più potenti e fragili, e montandoci sopra il sistema operativo delle finestre. Nell’informatica vale su tutte una regola generale:

 

“Ogni nuova versione di un qualsiasi oggetto informatico, sia esso un computer, un componente o un suo accessorio, un sistema operativo, un programma, un tablet, un telefonino o quant’altro, ha sempre una serie di straordinarie caratteristiche che lo rendono assolutamente irrinunciabile per qualunque amante della tecnologia, e su tutte la peculiarità di essere un oggetto di cui vergognarsi non appena uscirà la versione successiva.”

 

Questo è quello che accade nel mondo dell’informatica, degli elettrodomestici e di tutte quelle cose che costa meno comprarle nuove che ripararle. Da un lato i venditori di spremiagrumi ci tengono ad incrementare il loro esiguo fatturato, ed invece di farmi spendere una volta sola una cifra importante per darmi lo spremiagrumi che servirà me ed una mia linea dinastica nei secoli, preferiscono distribuire i miei investimenti su numerosi spremiagrumi che verranno ricomprati in genere poco dopo lo scadere della garanzia del predecessore. Dall’altro lato i venditori di computer e affini, che mettono ogni sforzo nel produrre oggetti sempre più moderni e delicati.

 

Ma chi altro ci guadagna da tutto questo, oltre a loro? Ci guadagno io. Perché di mestiere faccio l’uomo dei computer, e rientro quindi in quella grossa categoria di persone che traggono beneficio dalle vergognose lacune e dalla complessità dei prodotti di cui sono più esperto della maggior parte della gente. Grazie alla straordinaria fragilità e complicatezza dei computer e dei programmi che ci girano sopra, un’azienda è arrivata al punto di pagarmi mensilmente uno stipendio in cambio dei miei sforzi costanti di minimizzare le spese informatiche di acquisto e riparazione, oltre che di aiutare i miei colleghi ad usare i loro computer attraverso l’incessante cambiamento studiato per lasciarli in un costante stato di ansia. Allo stato attuale delle cose, ho pure l’arroganza di ritenermi indispensabile, ma ho ipotizzato alcune delle cause esterne che potrebbero portare alla mia perdita del lavoro:

 

  1. i produttori di computer e di programmi dichiarano di aver costruito un computer perfetto che non si rompe, non si consuma usandolo e che non può essere migliorato in nessun modo, per cui una volta che un utente ha imparato ad usarlo, non avrà più bisogno dell’aiuto di nessuno per aggiustarlo o imparare cose nuove
  2. i produttori di computer e di programmi decideranno che i loro prodotti dovranno essere intuitivi come uno spremiagrumi e robusti come una forchetta, e non il contrario. A questo punto chiunque sarà in grado di imparare da solo ad usarli senza l’aiuto di un tecnico

 

Finché i computer saranno complicati come una forchetta data ad un americano per mangiare degli spaghetti, e avranno una durata paragonabile al mio spremiagrumi, allora il mio posto di lavoro è tranquillo. Ma come riesco a coniugare questo lavoro basato sullo sfruttamento di una falla nel sistema con la mia etica pastafariana? Ci ho pensato a lungo, soprattutto nelle pause che mi prendo a leggere blog informatici durante l’orario di lavoro. La soluzione è questa: facendolo nel migliore dei modi che posso, anche se va contro il mio interesse. Significa orientare le persone a fare quelle scelte che le portano ad avere sempre meno bisogno di figure professionali come la mia, o perlomeno di cavarsela nel migliore dei modi anche senza di me. Ha senso fare così? Sì, per moltissimi motivi. Per esempio, se perdo un po’ di tempo ad insegnare ad un collega a non cliccare sugli allegati compressi delle email minacciose ricevute da un misterioso indirizzo della polizia, ne risparmio molto successivamente. Tempo che posso impiegare in attività più stimolanti e produttive che non litigare con un virus ostinato e con un collega ancora più ostinato che continua a ripetermi per l’ennesima volta i motivi che l’hanno portato all’insano gesto, nel tentativo disperato di riabilitarsi.

 

Ma non è solo lavoro stipendiato. A volte è anche aiuto ad amici, a parenti, o a parenti di amici o ad amici di parenti o di altri amici. Già, ma per chi non lo sapesse, gli informatici sono la categoria di tecnici più sfruttata in assoluto nel settore domestico. Molto più dei biologi, a cui pochi amici chiedono di rafforzare un ceppo batterico o di migliorare un lievito particolare per la propria birra fatta in casa, o anche dei chimici, a cui raramente viene chiesto di fabbricare un bomba con del concime, o di cucinare delle metanfetamine. Ormai computer e affini sono molto diffusi, tutti con la loro innata tendenza a non funzionare nel modo atteso. L’aiuto dell’esperto non guasta mai.

 

Chiaramente regalare la propria professionalità rimane un piacere prima che un dovere là dove non si va oltre la conoscenza diretta. Ovvero, è normale che l’amico o il parente prossimo possano godere dell’aiuto dell’informatico pagandolo in gratitudine o in birre serali. Quando i gradi di separazione vanno ad aumentare, allora la faccenda cambia un poco. Perché è vero che l’informatico appartiene in genere a quel gruppo di professionisti che ama il suo lavoro al punto tale da praticarlo anche nel tempo libero come hobby principale. Ma è anche vero che non sempre muore dalla voglia di uscire dal suo antro informatico per sorbirsi un’altra dose di problemi altrui conditi il più delle volte con una salsa di isteria e frustrazione. Quindi, chiaramente, va definito il disturbo.

 

Almeno nel mio caso, il disturbo è proprio disturbante. E non solo perché non amo essere disturbato quando mi sto dedicando alle mie attività private, comprendenti una casa, una quasi moglie, un figlio ed una impegnativa attività letteraria in Internet. Ma anche perché mi sento un poco in colpa per farmi dare un compenso dovuto per delle opere che il più delle volte sono proprio elementari: non è tanto quanto quello che chiederebbe il filibustiere della Valle del Silicio per fare lo stesso lavoro, ma è comunque un po’ di più di quello che prende un uomo delle pulizie o un baby sitter, che pure non fanno cose difficilissime. Mi rispondo che sono cose che comunque vanno fatte, che se non le faccio io finisce che le fa qualche collega, e che questo collega che non conosco non è detto che sia onesto come me, che il mio scopo personale è prima di tutto di portare al minimo le possibilità che la stessa persona debba chiamarmi un’altra volta per un lavoro che ho fatto male o per un nuovo problema. Non campo di questo e posso permermi di cercare di farlo il meno possibile e nel migliore dei modi. Non sono sicuro che tutti i miei colleghi facciano così.

 

E perché ho deciso di scrivere tutto questo? Ma perché fino ad adesso tutto quello che ho detto, fatto e consigliato è finito senza nefaste conseguenze né per me né per le persone che ho aiutato. Ma qualche giorno fa mi sono scontrato con la mia nemesi, colei che peggio di tutte le persone per cui ho lavorato mi ha costretto a dare il peggio di me per portare a termine un lavoro che ho odiato dal primo all’ultimo secondo che ho impiegato per farlo. Un lavoro che mi ha costretto a rinnegare ogni cosa in cui credo della mia professione, ogni regola deontologica del buon sistemista informatico.

 

Dall’inizio. Ho una collega che in passato ho aiutato col suo computer. L’ho fatto volentieri: con i colleghi vale spesso la regola che per alleviare il loro senso di debito, io accetto il lavoro in cambio di una cena deliziosa innaffiata da abbondanti dosi di vino, e porto a termine il lavoro in buona compagnia e in un generale stato di ebrezza. Non mi ricordo minimamente che problema avesse il computer, ma sono certo di aver mangiato una tagliata di cavallo delle più tenere e succose della mia vita. Nell’occasione ho avuto modo di conoscere anche la sorella della mia collega. Scopro che lei si è ritrovata ad essere la responsabile informatica della sua scuola, nonostante insegni tutt’altro. Una volta tanto quindi i problemi a cui ho risposto erano pure di un livello un po’ più elevato. Fa anche piacere, non lo nascondo.

 

Passa qualche anno. fino al giorno infausto della settimana scorsa. La mia collega entra nel mio ufficio chiedendomi se sono disposto a fare lavori anche per conoscenti di conoscenti. Si può fare. Quindi dice il problema: una conoscente della sorella ha ereditato un netbook, uno di quei piccoli portatili a basso costo caduti più o meno in disgrazia dopo l’arrivo l’arrivo dei tablet. Il tablet, nota positiva, non ha su il sistema operativo delle finestre, di cui si è parlato tanto all’inizio. Ne ha su un altro, nientemeno che Ubuntu. Raro, ma a volte capita. Per chi non sa cosa è Ubuntu, spiegazione: Ubuntu è uno degli ultimi figli della nobile dinastia di Linux. Forte di una buona dose di marketing, di una comunità di supporto gagliarda e, a differenza di gran parte delle distribuzioni di Linux, di un orientamento poderoso verso gli utenti di livello dal medio in giù, Ubuntu è diventato molto popolare. Nel senso che a livello mondiale si parla sempre di briciole, ma per essere Linux è una grossa comunità, attiva e propositiva, con anche delle buone garanzie sul futuro. Per chi non sa neanche cosa sia Linux, basti dire che è il figlio prediletto di Unix, il primo grande sistema operativo di cui ha senso parlare e da cui è nato pure l’attuale sistema operativo MacOSX, e da cui anni fa è stato malamente scopiazzato il primo sistema operativo delle finestre. Quindi possiamo dire che se parliamo di Linux Ubuntu, non stiamo parlando dell’ultimo figlio della serva, ma casomai dell’erede più promettente della più nobile delle casate, seppur decaduta. Altra cosa da dire riguardo a Linux, è il loro tipo di licenza. Normalmente si dice che è gratis. Non è propriamente corretto. Sarebbe meglio dire che è opensource, ovvero che tutto è disponibile per chiunque senza segreti e ci si può fare quello che si vuole, a condizione che se ci lavori sopra per tirarne fuori qualcosa a tua volta, queste nuove cose siano rese di nuovo disponibili. Strano sistema di licenze, mi piace molto l’idea che qualcuno l’abbia pensato. Piace agli utenti che lo usano perché sono liberi di fare quello che vogliono dei loro computer, piace di meno alle aziende produttrici quando sono grosse e voraci multinazionali gelose dei loro segreti. Piace molto a chi ama un sistema operativo svincolato dalle logiche di mercato, e quindi ottimizzato per funzionare al meglio su qualsiasi macchina lo si installi. Già: incredibile a dirsi, questi tipi di sistemi operativi non hanno l’abitudine dei loro concorrenti a pagamento di richiedere sistematicamente dei computer all’ultima moda per installarci la loro ultima versione. E forse per questo sono particolarmente adatti ad ogni tipo di computer, e sono molto poco amati da chi i computer li costruisce per venderli, e non ha piacere quando lo si cambia troppe poche volte.

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Il raro cerotto di Ubuntu che può comparire al posto della costosissima bandierina svolazzante

 

Torniamo al netbook con Ubuntu preinstallato di prima. Ho già detto che è raro poter comprare un computer senza che ci siano già sopra le finestre, per cui fa un po’ strano vedere un portatile con il simpatico cerottino arancione di Ubuntu. E’ bello però che alle volte ci sia la possibilità di avere un portatile senza doverci pagare sopra la licenza di un brutto e molto diffuso sistema operativo come quello delle finestre. Il fatto poi che ci sia Ubuntu non vuol dire niente: ci hanno messo Ubuntu perché è facile e affidabile, e quindi con ogni probabilità incontrerà i gusti dell’utente, ma essendo che Ubuntu non ha nessuna licenza, non ci si deve sentire in colpa se appena arrivati a casa ci si mette una qualsiasi altra versione di Linux, o di quello che si vuole. Si può fare, fatelo. Divertiteli a provarli tutti e poi lasciateci quello che vi è piaciuto di più. Altro che finestre.

 

In un mondo ideale, l’utente che si reca in un centro commerciale troverà in vendita solo computer con sopra sistemi operativi senza licenza, come Ubuntu o i suoi fratelli. Poi deciderà da sé se è o meno il caso di buttare via qualche centinaia di euro per rovinare il suo computer con sistema operativo protetto da licenza per farlo invecchiare precocemente, vittima dei virus e della cattiva programmazione. Chiaramente queste scelte uno deve essere libero di farle anche in un mondo ideale. Quello che proprio non va bene in un mondo non ideale come il nostro è che occorre lottare perché un computer possa essere acquistato senza che nei soldi spesi ci siano quelli per una indesiderata e fastidiosa licenza d’uso delle finestre. Ovviamente l’utente può metterci quello che vuole sul suo computer, ma non vedo perché si debba pagare un brutto sistema operativo che uno può pretendere di non usare, premiando la già ricchissima azienda che l’ha prodotto, quando poi si decide di usare un altro sistema operativo scritto da una comunità di onesti sviluppatori, a cui in coscienza ognuno deciderà se inviare o meno una qualche decina di euro.

 

E che cosa è ancora più fastidioso di tutto questa schifosa politica del sistema operativo pagato e preinstallato? Quello che è successo a me: che mi si consegni un netbook con sopra Ubuntu, e mi si chieda di metterci sopra le finestre. Per me è la somma di tutte le stupidità umane, l’apoteosi della più sublime e spudorata forma di ostinata ignoranza in materia. A chiedermelo è la mia collega, e mentre lo chiedeva già si stava scusando, come a dire che sapeva già la risposta ma che lo doveva fare perché non è una sua richiesta, ma di un’altra persona che neppure conosce. Io le dico quello che penso. E non è solo una questione di pagare una persona per peggiorare il proprio computer. C’è sottinteso il problema della licenza del sistema operativo, che se la si compra è vergognosamente costosa, e se si decide di farne a meno si espone il computer ad una serie di rischi non trascurabili.

 

L’argomento della discussione si sposta sul piano economico. Qualcun’altro è già stato contattato per fare questo lavoro, e ha chiesto 100 euro. Niente male davvero, un prezzo alto per un lavoretto di un paio di ore espletato al 90% in automatico da una chiavetta USB. Ma un prezzo non abbastanza alto da pensare che sia compresa l’installazione di una licenza originale. Penso quindi che se questo lavoro non lo faccio io per meno, c’è già qualcun’altro pronto a farlo per la cifra indicata. Decido quindi che se lo farò io, servirà anche a togliere 100 euro dalle tasche di uno sconosciuto informatico disonesto che campa sulla stupidità della gente.

 

Dal piano economico si passa al piano umano: dietro la mia resistenza, la mia collega si mette a parlarmi dell’interessata, dicendomi che è una persona anziana: ha 60 anni. Penso subito ai miei genitori. Mio padre di anni ne ha 70, e fa regolarmente acquisti da venditori statunitensi di Ebay ricordandosi di pagare con Paypal. Mia madre che di anni ne ha 65 usa il tablet per prenotare le sue vacanze e per chiedermi insistentemente con Whatsapp nuove foto di mio figlio caricate in Dropbox. Non credo che non sia una questione di età, quanto di testa. La signora forse non rientra nella categoria degli anziani che pensano a quello che fanno, che sanno quello che vogliono e che votano chi dovrebbero. Ha un figlio che si è preso un netbook con sopra Ubuntu, bravo, ma poi glielo ha regalato, e non so se è per generosità o scarso uso. Non vorrei giudicare, ma se le regalava anche giusto quel paio di ore per spiegarle due cose sul suo computer, la signora avrebbe evitato di buttare via dei soldi.

 

Insisto perché la mia collega dica a sua sorella di insistere, ma già ho poche speranze. Se tutto va bene, non se ne parlerà più, altrimenti vedrò comparire nel pomeriggio la mia collega con il netbook della discordia.

 

E mentre attendo nervoso, penso anche ad una soluzione alternativa su misura per la signora e di minimo sforzo per me. Siccome questa persona userà il computer per niente per cui non vada più che bene Ubuntu, allora ho questa idea:

 

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Finestre 10.04, il miglior Finestre mai esistito

La foto che vedete ritrae la miglior versione del sistema operativo delle finestre che sia mai esistita. E’ la 10.04. La si ottiene installando su un computer la distribuzione 10.04 di Ubuntu, il Pangolino Preciso, e quindi snaturarlo solo graficamente con un orribile sfondo delle finestre scaricato da Internet. Questa versione del sistema operativo offre grande tranquillità e piacere all’utente amante delle finestre, e nel contempo gli fornisce un sistema stabile e leggero, in grado di assolvere alle sue necessità nel migliore dei modi.

 

Nel pomeriggio è arrivata la mia collega con una borsina, contenente lo sciagurato computer. E il lavoro l’ho fatto, senza limitarmi a cambiare lo sfondo. Avrei tanto voluto, ma non conoscendo la persona, non ho voluto rischiare. Quando la mia collega si è presentata nel mio ufficio, per giustificarsi ha calcato la mano sulla persona: “fa la bidella, ha la sua età, e se non gli metti su le sue finestre poi passa il tempo a telefonare a mia sorella perché non riesce a fare niente!”. Dentro di me ancora mi chiedo cosa mai debba fare questa bidella con questo computer per cui Ubuntu proprio non vada bene: programmare con Visual Studio? Giocare a World of Warcraft? Disegnare con Adobe Illustrator? Proprio non riesco a capire.

 

Faccio il lavoro con tutte le precauzioni del caso, tra cui su tutte la copia dell’immagine del disco ancora ubuntato. Spero sempre che in un ipotetico futuro la cliente, quando il suo computer delle finestre sarà più o meno così

 

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e farà un po’ fatica a navigare, magari mi chiederà di rimettere tutto come prima. Non vorrei che mi si cogliesse impreparato.

 

Ad ogni installazione di finestre che faccio, mi ritrovo ad usare lo straordinario programma di navigazione preinstallato, e a godere della sua pagina predefinita, che da vent’anni a questa parte rimane ancora misteriosamente un sito di gossip dall’indirizzo britannico. Uso sia il programma che il sito solo una volta, giusto per scaricare da Internet una delle numerose migliori alternative. Facendo questo conto di incrementare le statistiche secondo cui il programma di navigazione ed il sito delle finestre servono agli utenti solo a sostituirli.

 

Fatto questo, che è già più di quello che mi è stato chiesto, per onestà metto anche uno a caso dei soliti antivirus gratuiti, senza il quale l’onesto sistema operativo delle finestre si prenderebbe ancora più virus e porcherie varie di quelle che già si prenderà.

 

Potrei anche dire di aver finito, ma so già non c’è sistema operativo delle finestre senza il suo programma dell’ufficio. Già però credo di essermi sporcato le mani abbastanza, e da anni mi rifiuto di installare la suite da ufficio delle finestre per gli utenti di casa, che più che scrivere una lettera all’amministratore del condominio o tenere i conti di casa in un foglio di calcolo non fanno. Installo quindi una delle ottime alternative gratuite.

 

Il lavoro è finito, il computer è stato rovinato ottimamente. Devo giusto fare quei venti o trenta riavvii per caricare gli innumerevoli aggiornamenti alle finestre, per turare almeno i problemi e le falle di sicurezza scovati fino a questo momento; dopo poche ore di saltuari click di mouse ho finito anche questo: il computer è pronto, e giusto un pelo più lento che non all’inizio del lavoro.

 

Ovviamente non mi ha dato piacere fare questo, e sento il bisogno di insistere ancora una volta. Scrivo quindi una lettera, non per la bidella amante delle finestre, ma per la sorella della mia collega. La mia lettera vuole essere un disperato prontuario scritto a mente fredda per fornire gli argomenti a chi si ritrova a parlare con un troglodita dei vantaggi di Linux rispetto a Windows. All’inizio avrei voluto scrivere direttamente alla cliente, ma non ero sicuro che sapesse leggere, né tantomeno che avrebbe avuto la forza e la costanza di arrivare fino in fondo alla lettera. Ho preferito quindi affidare le mie vaghe speranze a quella persona che so già avere usato Linux in passato, cercando in lei un alleato comunque valido ed informato.

 

Ecco la lettera:

 

Considerazioni su un lavoro sporco


Ciao.

Scrivo queste parole per cercare di lavarmi la coscienza del lavoro appena fatto.

Prendere un computer con montato Ubuntu, formattarlo e montarci le finestre senza che ce ne sia la benché minima necessità va contro la mia morale, oltre che alla deontologia del sistemista informatico.

D’altra parte so che purtroppo l’ignoranza, quando è unita ad una ferma resistenza al cambiamento, porta a queste bestialità.

Riassumo qui di seguito i punti che vorrei che tu dicessi alla cliente, magari omettendo le amene considerazioni iniziali. Parlando con tua sorella so già che concordi con me su molte di queste cose.

  1. Ubuntu è gratuito, Le finestre non lo sono. Questo significa che quando si formatta un computer con sopra Ubuntu per metterci le finestre, o si possiede già una licenza usabile delle finestre, o la si acquista per qualche centinaio di euro, o si “altera” il sistema operativo, per fare in modo che funzioni senza una licenza legalmente acquistata. Sai anche tu che questo oltre che illegale, genera una serie di problemi. Per esempio, le finestre si aggiornano periodicamente per risolvere bachi e vulnerabilità, ma anche per rilevare versioni non originali. Non posso escludere che tra due giorni o tra un anno le finestre si accorgano che la licenza non è originale, e smettano di funzionare. Se questo dovesse accadere non lo ritengo un problema mio, come a dire che il mio lavoro non copre nessuna garanzia sulla licenza. Ed escludere gli aggiornamenti per evitare questo problema non è una ipotesi da prendere in considerazione, perché significa avere un s.o. esposto a vulnerabilità.
  2. Ubuntu è un s.o. veloce e leggero, le finestre non lo sono. Il motivo principale è che le finestre campano sulla vendita di licenze, e quindi sono contente quando un computer smette di funzionare perché è troppo vecchio, costringendo l’utente a comprarsi un nuovo computer ed una nuova licenza. La politica adottata dalle finestre e da moltissimi loro colleghi è quella dell’obsolescenza programmata, ovvero una serie di accorgimenti per fare in modo che nel giro di pochi anni un computer che andava benissimo diventi un baraccone inutilizzabile senza che ci sia motivo: il computer è lo stesso, ed i programmi che vengono usati sono gli stessi. Ma se prima ci metteva 20 secondi ad accendersi, tra un anno, chissà perché, ci metterà 2 minuti. Ubuntu non segue questa politica. Ubuntu non prende soldi dalla vendita di licenze o di computer nuovi, e quindi non ha interesse a diventare inusabile per costringerci a cambiare computer. Ubuntu come molti altri sistemi Linux prende soldi da offerte volontarie e dall’assistenza telefonica per gli utenti business, e quindi cercherà in tutti i modi di fare la migliore figura possibile dandoci un s.o. veloce, sicuro e che duri nel tempo.
  3. Ubuntu è sostanzialmente immune ai virus, le finestre non lo sono. Questo non solo perché è un sistema operativo migliore, quanto perché i virus vengono fatti apporta per colpire i s.o. più diffusi, vedi le finestre o le mele. Un virus fatto per un sistema Linux non riuscirebbe a diffondersi, dato lo scarso numero dei suoi computer. Questo significa che un computer con sopra Ubuntu senza antivirus è comunque molto più sicuro di un computer con le finestre e un antivirus aggiornato. I virus vengono fatti apposta per aggirare le protezioni degli antivirus, ricordiamolo, e quindi quando esce un virus all’ultima moda, non c’è antivirus che tenga.
  4. Non è solo un problema di virus. Le finestre stesse, con la loro diffusione e la scarsa alfabetizzazione della stragrande maggioranza dei loro utenti, hanno favorito la proliferazione di un gran numero di programmi indesiderati che si installano nel computer semplicemente non stando troppo attenti a dove si clicca in Internet. Sto parlando di toolbar varie ed eventuali, ma anche di finti antivirus ed inutili ottimizzatori di prestazioni. Con Ubuntu questo non succede, per lo stesso motivo del punto 3. Un computer con sopra le finestre dato in mano ad un utente poco pratico diventerà nel giro di pochi mesi un baraccone lento e impestato, mentre lo stesso pc con Ubuntu rimarrà giovane e veloce.

Potrei andare avanti ancora, ma credo di aver citato i principali punti.

Detto questo, io il lavoro l’ho fatto. Oltre ai driver necessari, ho messo Google Chrome, Firefox, un antivirus e Libreoffice per i documenti.

Se però grazie al presente documento riesci a convincere la cliente a tenersi Ubuntu, io sarò più che felice di prendere la copia del disco che ho fatto e di rimettere sul computer il suo Ubuntu tale e quale a come me l’ha dato. Per dimostrarle la mia felicità e buona fede poi non le farò sborsare un euro per tutto il lavoro che ho fatto. Se invece insiste che Ubuntu non le va bene perché la sua paranoia è tale da non ammettere argomenti, allora le do il suo computer con sopra le finestre e mi paga il lavoro. Beninteso che non rispondo di nessun problema di licenza e affini, come detto al punto 1, così come della lentezza del sistema operativo di cui al punto 2 o ai problemi di virus e porcherie varie derivanti da bachi dello stesso s.o. o da uso improprio, di cui ai punti 3 e 4. Non è solo la mia politica, ma quella di ogni azienda di hardware o software in generale. Beninteso che non voglio che ci vada di mezzo tu, quindi ti suggerisco di adottare la stessa mia politica con la signora, perché so per esperienza che da queste cose una volta dentro non ci si esce più, e l’ostinazione e l’ignoranza sono attitudini che vanno pagate, e non incoraggiate.

Se però in futuro dovesse cambiare idea, sappi che io per un po’ di mesi terrò da conto la copia del disco con sopra Ubuntu. E sarò felice e disponibile a rimettercelo senza troppi problemi.

Concludo con una simpatica considerazione: se invece che formattare tutto mi limitavo a mettere il logo delle finestre sullo sfondo della scrivania, bastava poi dire che quella era l’ultima versione delle finestre e non credo che se ne sarebbe accorta. Perché le icone sono icone sia con le finestre che con Ubuntu, e per farle funzionare ci si clicca sopra alla stessa maniera. E vorrei proprio capire quale sia il problema che spinge una persona a buttare via dei soldi in questo modo.

Alberto, 6 febbraio 2015

Come è andata a finire? Che la mia collega ha letto subito la mia lettera, non fosse altro perché le piace come scrivo. Forse l’ha letta anche sua sorella. Poi immagino che questa mentre consegnava il computer alla cliente abbia fatto lo sguardo eloquente del tipo “guai a te se mi chiami ancora adesso”. Quindi alcune banconote di piccolo taglio hanno fatto il percorso inverso. E la storia è finita.

 

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Conversazione tra gente per bene

L’altro giorno ho partecipato ad una discussione interessante con alcuni miei conoscenti. Tutto è iniziato parlando di un amico comune che ha preso casa e la sta sistemando. Mi raccontano che mentre era intento nelle opere di restauro, nel parchetto vicino alcuni ragazzi pakistani stavano giocando a cricket, loro sport tradizionalecricketstan-1, ed un loro tiro particolarmente sfortunato (o fortunato? Non sono pratico delle regole, magari è un fuoricampo come nel baseball) ha fatto finire la palla nella proprietà del nostro amico. Uno dei ragazzi viene incaricato del recupero. Immagino abbia suonato il campanello. L’amico provvede prontamente alla restituzione, sbuffando bonariamente un “cominciamo bene…”.

 

Fin qui un racconto carino: alcuni ragazzi giocano al loro complicatissimo sport nazionale in un parchetto pubblico, e neanche a dirlo ne esce un involontario messaggio di benvenuto per un nuovo arrivato. Dimostro apprezzamento per la storiella, sottolineando in particolare come mi faccia piacere che dei ragazzi stranieri riescano a trovarsi per giocare a qualcosa di originario del loro paese. Il mio commento per cade nel vuoto, perché la stessa immagine provoca nei miei conoscenti un certo risentimento. Cricket wicket keeperPotrei descrivere questo risentimento come quello che proverei io se questo gruppo di ragazzi giocasse a questo sport nel salotto di casa mia, usando al posto del tradizionale wicket in legno tre pile di piatti presi dal mio servizi buono. Capisco che c’è rancore perché lo manifestano con borbottii sommessi, scuotimenti di testa e occhiate al soffitto, come a dire che certe cose purtroppo sono legali e vanno sopportate, e siamo tenuti a comportarci da gente civile anche di fronte a questi oltraggi al buongusto. Trovo questo un po’ eccessivo, quindi gliene chiedo il motivo. La risposta ha pronta una ragione generica: se vogliono giocare al loro gioco devono stare attenti a non fare danni. Si sa, potrebbero rompere un vetro, o colpire qualcuno. La palla nella proprietà del conoscente ne è la prova inconfutabile.

 

Quindi, ci sono dei ragazzi che giocano in un parco pubblico, e ci sono altre persone un po’ rancorose, a cui questa cosa non va molto giù. Forse preferirebbero, come direbbe Giorgio Gaber, che tale parco fosse destinato ad un uso più classico, tipo “cani e drogati”. cane-drogatoMa anche i cani ed i drogati fanno i loro danni. I primi a volte morsicano le persone, più spesso abbaiano rumorosamente perché sono felici, tristi o semplicemente perché si divertono a sentirsi mentre abbaiano, e sempre decidono di accampare diritti sul territorio comune lasciando spiacevoli testimonianze maleodoranti che non sempre vengono poi raccolte dai loro distratti padroni. I drogati in genere sanno anche essere discreti: non mordono, non abbaiano e tendono a non operare se c’è in ballo la finale di cricket del quartiere. Non so se anche loro facciano la cacca in giro per il parco, ma a volte lasciano delle testimonianze che anche se non puzzano sono molto più fastidiose di quelle dei cani. Ogni visitatore di parchetti pubblici avrà modo di preferire una di queste tre categorie rispetto all’altra. A me personalmente non piacciono i drogati, ma amo i cani, a condizione che non siano dei grossi cani dall’aspetto minaccioso accompagnati da persone pure minacciose e rasate. Non mi piacciono i padroni dei cani quando non si portano via il prodotto interno lordo dei loro cani, e mi piacciono ancora di meno i padroni dei cani quando i loro cani depositano il loro PIL proprio dove di lì a poco io andrò a posare uno dei miei piedi. E ho già detto che amo i ragazzi che si ritrovano a giocare in un parco, anche se non capisco le regole del loro gioco. E’ anche una buona occasione per imparare qualcosa.

 

Mi chiedo quindi per quale motivo conosco delle persone che invece non amano questa categoria, preferendo le altre due. Vorrei tanto chiederlo, perché non credo che il vero motivo siano i “danni”. Mentre penso a come formulare la domanda, la risposta arriva da sé. A quanto pare il sentimento negativo che suscitano questi ragazzi deve essere abbastanza forte, e sentono il bisogno di riportare un esempio ancora più forte: “se vai all’oratorio, li vedi giocare anche lì, ma sempre tra di loro, e non gli dà fastidio che ci sia un crocifisso”. Già: pare che all’oratorio di queste persone che conosco ci sia un campo ed un crocifisso, simbolo della religione a cui l’oratorio fa capo. Di certo poi ci saranno alcuni ragazzi della religione giusta che giocano ad uno sport giusto, facilmente calcio o pallacanestro, e fin qui va tutto bene. Quello che non va bene è che ci siano altri ragazzi che come prima cosa lasciano intendere di essere della religione sbagliata, a giudicare dal colore della loro pelle, dal loro aspetto fisico o dal vestiario. E come seconda cosa che questi ragazzi di religione sbagliata decidano di giocare ad un gioco non canonico e dalle regole incomprensibili in questo luogo dedicato ad un dio diverso dal loro, il tutto con il chiaro intento provocatorio di isolarsi dagli altri ragazzi. Se prima i ragazzi che giocavano al parco pubblico erano fonte di un sommesso rancore, in questo caso siamo alla provocazione deliberata, e la frase ad effetto viene da sé: “ah, non gli dà fastidio la croce, in questo caso, eh?”. La frase è pronunciata in modo enfatico, con la consapevolezza che avrebbe suscitato approvazione ed interesse, ma io non ne colgo il senso e rimango perplesso: non capisco bene in che modo un monumento macabro possa dare fastidio a dei giocatori di cricket. Per la mia esperienza giovanile di oratori, questi altari religiosi non occupano mai la superficie dei campi da gioco, ma al massimo vengono posti ai loro bordi per non ostacolare la corsa dei giocatori o la traiettoria della palla. Questo non solo per i giocatori di cricket, ma di qualsiasi sport di squadra. wicketLa forma stessa del monumento difficilmente verrà confusa con il wicket, che è formato da tre aste verticali uguali e parallele, mentre il crocefisso ha solamente due braccia verticali di diversa lunghezza poste una sopra l’altra. Capisco quindi che il riferimento al fastidio fosse più per motivi religiosi che per il gioco.wicket-di-recupero Qualcosa che potrebbe suonare così: “se sei mussulmano, la stessa coerenza che ti spinge a evitare per esempio la carne di maiale ti deve impedire di giocare serenamente in un luogo consacrato ad un dio diverso dal tuo, e se così non è allora sei un ipocrita”.

 

A me un po’ scoccia dover prendere le difese di persone religiose. Ma trovo comunque ridicolo che un ragazzino debba avere dei problemi a giocare in un posto in cui semplicemente c’è il simbolo di un’altra religione. Forse il mio conoscente che ha pronunciato questa frase non si rende conto, ma viviamo in un ambiente in cui questi strumenti di tortura in miniatura compaiono davvero un po’ ovunque, anche in posti in cui centrano molto poco in quanto teoricamente laici. Mi danno fastidio, come lo daranno a questi ragazzi, ma se davvero io e loro dovessimo evitare di frequentare tutti questi luoghi semplicemente perché impongono una religione diversa da quella pastafariana o mussulmana, allora avremmo dei problemi ad uscire di casa per fare cose elementari come:

  • entrare in gran parte delle aule delle scuole pubbliche
  • pagare un bollettino delle tasse in posta
  • chiedere un documento in minicipio
  • passare per gran parte delle vie e delle piazze, laddove sorge il monumento di ringraziamento ad un devoto prelato del passato che si è distinto a modo suo in base all’opinione dei suoi fedeli, o l’ennesima cappella alla madonna di turno che ha fatto la grazia guarendo una persona destinata comunque a morire di qualcos’altro più avanti
  • guidare nel traffico cercando di evitare le manovre imprevedibili della grande fascia di popolazione che invece che riporre la propria volontà a non fare incidenti in caratteristiche come abilità, prudenza e visibilità verso l’esterno, preferisce affidarsi a grossi cerotti del santo di Pietralcina incollati sul parabrezza o ad ondeggianti collane di sassolini appese allo specchietto retrovisore
  • ascoltare un qualsiasi radiogiornale nazionale, in cui le mirabolanti avventure del sommo pontefice in giro per il mondo vengono quotidianamente commentate da stimate squadre di esperti scelte per lo scopo tra i suoi sottoposti o tra i più ferventi sostenitori laici

Insomma, quando non si crede nella religione del paese e non si vive in un ambiente autosufficiente come Gardaland o Villa San Martino, allora è necessario uscire di casa abbastanza spesso, e quindi abituarsi alla presenza di questi simboli religiosi anche nei posti più strani e disparati.

 

Ma durante la mia conversazione con questa gente per bene non volevo parlare di questo, e la mia obiezione è stata un’altra: “credete che dei bambini cristiani avrebbero dei problemi a giocare a calcio nell’oratorio di una moschea?” Lo ammetto, la foga mi ha fatto pronunciare un’obiezione a dir poco surreale. Non so se le moschee hanno campi da calcio e non so se questi sono aperti al pubblico, pur senza andare a specificare se stiamo parlando di moschee sul territorio italiano o in paesi islamici. Nel caso locale andiamo davvero nel territorio dell’assurdo, visto il trattamento riservato agli edifici delle religioni non conformi al “paesaggio lombardo” dai nostri governanti della regione. Nel caso delle moschee nei paesi islamici, di sicuro il confronto esce impietoso, perché se da noi un prete che non sia proprio un completo pezzente non va a mandar via dal suo oratorio dei ragazzi mussulmani che giocano a qualcosa, in molti paesi islamici anche solo dare idea pubblicamente di non essere mussulmani è un’offesa meritevole di condanna a morte. All’origine della mia frase però c’era un concetto onesto: se in Italia ci fosse un campo da gioco aperto al pubblico ma facente parte del complesso di una moschea e nei dintorni, incredibile ma vero, non ci fosse un equivalente cristiano o aconfessionale, allora i ragazzi cristiani giocherebbero in quel campo senza farsi troppi problemi, e probabilmente anche ad uno sport non benedetto dal profeta Maometto. Questo era il mio pensiero: ai ragazzi interessa giocare con i loro amici allo sport che il gruppo preferisce. Quindi un gruppo di ragazzi italiani sarà portato a giocare a calcio o a pallacanestro, a seconda del pallone e del campo disponibile, mentre un gruppo di ragazzi pakistani invece avrà più facilmente con sé gli strumenti del loro sport nazionale, e quindi giocherà a tale sport. Se un giorno il caso volesse che il ragazzo pakistano proprietario della palla o del wicket fosse assente per malattia, ma in oratorio venisse trovato un pallone da basket o da calcio dimenticato, allora i suoi amici troverebbero la migliore delle occasioni per sperimentare un nuovo gioco. Non credo che rinuncerebbero alla partita. Al contrario, se dei ragazzi italiani disponessero solo di una palla da cricket e di un wicket, so per certo che si metterebbero a prendere a calci la prima dopo aver cercato di costruire un paio di porte con il secondo.

 

Ma ormai l’attenzione della nostra bella discussione si era spostata su più elevati concetti, primo fra tutti il fatto che questi profittatori usavano in modo improprio le risorse cristiane del luogo, ed in secondo luogo che lo facessero escludendo i ragazzi nati nei dintorni da più generazioni di loro e credenti nel dio del luogo. Non conosco questo oratorio. Sicuramente non c’è un campo da cricket. Ma non so se il gioco del cricket viene praticato sul campo da calcio, rovinando quindi l’inizio di carriera agli aspiranti Andrea Pirlo degli anni a venire, o se invece si giocava in un semplice piazzale dell’oratorio. Di fondo c’è il memorabile concetto che loro da noi si prendono certe libertà come quelle qui descritte, quando noi da loro non potremmo nemmeno mettere il naso fuori di casa senza che un buon mussulmano non si senta autorizzato a guadagnarsi il paradiso semplicemente spargendo il nostro sangue. Questo discorso l’ho sentito mille volte, ma stavolta era impreziosito dai recenti riferimenti a come si comportano i mussulmani da noi quando non si limitano a sopportare i crocifissi negli oratori, ma decidono di pubblicizzare la loro religione trucidando gli autori e gli editori di vignette offensive alla loro religione. Ritenere questi ragazzi amanti del cricket dei fanatici religiosi mi sembra eccessivo, però mi sono detto d’accordo su una cosa: la religione porta a degli eccessi terrificanti. Ho aggiunto un concetto che credo sia di Oliviero Toscani, per il quale se al mondo non ci fosse nessuna religione, non dovremmo difenderci da solenni imbecilli pronti ad uccidere nel nome del dio di turno. E, più in piccolo, non dovremmo preoccuparci di conoscere la religione di un gruppo di ragazzi per sapere se sono ben accetti o no a giocare in un parco giochi. Ma quando il mio conoscente ha esposto il concetto della pericolosità del fanatismo dei mussulmani, non intendeva certo darmi lo slancio per demonizzare a tradimento tutte le religioni. In realtà l’intento era quello di sottolineare l’intolleranza religiosa di quella gente a cui noi buoni cristiani diamo ospitalità e permettiamo di giocare a cricket nei nostri luoghi pubblici. Ma ormai la mia provocazione aveva spostato l’argomento su un altro tema spinoso: criticare aspramente tutte le religioni in quanto tali, quando in realtà solo una di queste ha dentro di sé il folle germe della cattiveria. E’ stato un colpo basso, e ha costretto queste brave persone a ritrattare. E lo hanno fatto esattamente come il loro capo, il bianco vicario di dio in terra, che ha detto che chi uccide nel nome di dio non è un buon credente, sia esso musulmano, cristiano o ebreo, perché da nessuna parte sta scritto che bisogna fare così. E qui devo contraddire chi la pensa in questo modo, perché tutti i libri sacri a cui fanno capo queste religioni (corano e versioni varie della bibbia) sono pieni di racconti di stragi etniche e religiose e di stermini vari perpetuati nel nome benevolo del loro dio. Oltre a questi ci sono diversi inviti espliciti ad uccidere l’infedele che difficilmente possono essere giudicati “da interpretare metaforicamente”. Troppo comodo quindi dire che chi uccide in quel modo non è un buon credente o non lo è dl tutto, a prescindere del dio a cui si è appellato. Stando ai testi sacri, quelli sono proprio i fedeli migliori che credono senza mettere in discussione, e secondo la loro religione hanno tutto il diritto di avere le vergini che gli sono state promesse. Spero che non rimarranno troppo delusi quando al posto delle vergini si troveranno di fronte ad un vulcano di birra sgasata e caldina.

 

Come si è visto, l’argomento si attorciglia un po’ su se stesso. Si parte sempre dalla critica facile alla violenta religione mussulmana: è disorganizzata, senza un leader ufficiale riconosciuto e con molte correnti autonome al suo interno fortemente intente a mettersi in mostra nei modi più violenti ed eclatanti. Chiaramente queste cose non piacciono a nessuna persona normale che non sia mussulmana. Ma non credo piacciano tanto nemmeno a chi è mussulmano e viene quindi assimilato con queste persone, quando magari l’unica sua trasgressione è quella di giocare a cricket in un parco pubblico italiano. Con queste premesse, la gente cristiana per bene si sente autorizzata a giudicare la propria religione come migliore di quella mussulmana semplicemente perché nessun cristiano si comporta in questo modo in base ai principi della tolleranza (qualcuno a dire il vero c’è, solo che se ne parla poco da queste parti), e quindi viene da sé che si possono discriminare dei ragazzi pakistani perché giocano a cricket in un parchetto. Ma se parliamo proprio di questi mussulmani molto cattivi che hanno iniziato giocando negli oratori per poi votarsi al martirio con strage, allora la discriminazione diventa scomoda, perché vorrebbe dire ammettere che la religione può portare al fanatismo. E quindi non ci piace chiamare chi fa delle stragi con il nome di martiri religiosi come loro stessi amano definirsi. Meglio usare la parola terrorista, specificando chiaramente che una persona del genere è un deviato che non ha letto bene i passaggi chiave del suo libro sacro. Il buon papa cattolico fa anche di meglio, accusando queste persone di essere atei travestiti da credenti, perché secondo lui non esiste che tanto odio può trovare posto nella fede in un dio. E via tutti a seguire l’esempio del papa, a difendere la stessa religione imbarazzante che ci dà tanto fastidio nel nostro quartiere. Perché il martire è una figura scomoda di cui vergognarsi, anche quando inneggia al dio rivale. Già, perché come alla fine ho fatto notare ai miei conoscenti, le parole urlate in piazza dai due fanatici religiosi a Parigi erano “Allah Akbar”, che non vuole dire “dio non esiste”. I due signori hanno fatto molto di più per il loro dio della stragrande maggioranza dei credenti di tutto il mondo.

 

La nostra conversazione è finita qui. Svolgendosi ad una cena, l’argomento spinoso è stato interrotto da un’offerta di insalata pronunciata ad alta voce con ampia ostentazione di insalatiera. Credo che ognuno abbia mantenuto le sue idee, come sempre.

 

Quello però che chiedo a chi abbia letto queste mie parole è di non offendersi se sono stato un po’ eccessivo. La religione è vissuta in modo sereno e personale dalla stragrande maggioranza dei fedeli, ma io considero soprattutto la religione come fonte dei migliori pretesti per permettere a delle persone di fare cose sbagliate nell’onesta convinzione di comportarsi nel modo migliore. E non intendo solo i martiri di ogni religione, che rinunciano ad una vita normale perché altri li hanno convinti che facendo così ne avranno un’altra vita di gran lunga migliore. Intendo anche tutte quelle piccole cose senza troppo senso che troppo spesso le religioni ci convincono a fare, ma che non servono a migliorare noi o il pianeta. Anche il Pastafarianesimo è una religione, e se mai dovesse diventare qualcosa di troppo serio per qualche pirata invasato da qualche parte nel mondo, allora non esiterò un secondo ad abbandonarla, perché sarà evidente che anche noi Pastafariani abbiamo fatto gli stessi errori di tutti gli altri, e che è impossibile creare una religione senza che questa porti a pregiudizi, discriminazione e prevaricazione. Questo timore non è solo il mio, ma è stato manifestato dallo stesso profeta tra le FAQ di venganza.org :

 

Q: In 1000 years will FSM be a mainstream religion?


A: This is something I think about constantly and it keeps me up at night. I sometimes wonder what the Church of Scientology — or lets say the Mormon Church looked like 5 years after Joseph Smith transcribed the scriptures out of the hat with the seer stones. What worries me is that right now I can be pretty sure there aren’t a lot of dogmatic nutty FSM people around, but what about in 20 years? What about in 50 years? What about when someone figures out a way to make money out of this and turns it into some new age spiritual enlightenment thing. There are billions of Christians who are crazy serious about their religion who don’t necessarily believe the things in the Bible actually happened. So .. yes, I do worry where FSM will go. My hope is it continues to be a positive force in the world. We will need to keep an eye on it for sure.

Che tradotto per i non-anglofoni, suona più o meno così:

 

Domanda: Tra 1000 anni il Pastafarianesimo diventerà una delle principali religioni?


Risposta: Ci penso continuamente e questo mi tiene sveglio la notte. A volte mi metto a pensare a come appariva la chiesa di Scientology — o anche la chiesa dei Mormoni 5 anni dopo che Joseph Smith si era reinventato le scritture usando le sue pietre divinatorie. Quello che mi preoccupa è che anche se sono certo che ad oggi non ci sono molti svitati Pastafariani integralisti in giro per il mondo, cosa accadrà tra 20 anni? E tra 50? E cosa succederà quando qualcuno troverà un sistema per farci dei soldi e lo trasformerà in un qualcosa di spiritualità new age? Ci sono miliardi di Cristiani che sono pazzamente seri riguardo alla loro religione e che non credono alla lettera agli eventi descritti nella Bibbia. Quindi .. sì, mi preoccupo di dove il Pastafarianesimo andrà a finire. La mia speranza è che continui ad essere una forza positiva mondiale. Sicuramente dovremo starci molto attenti.

Perché ogni volta che si parla di fede e non di ragione, questa fede va riposta in qualcuno, e raramente questa è una scelta consapevole. Troppo spesso la religione arriva per imposizione dalla famiglia o dall’ambiente in cui cresciamo, in genere approfittando della nostra tenera età, qualche volta di periodi difficili della nostra vita in cui siamo particolarmente vulnerabili. Sono sempre e comunque fasi critiche in cui non siamo in grado di difenderci da soli, e in cui siamo costretti a fidarci di altri. Essere fedeli inconsapevoli di una religione significa essere gli strumenti efficaci della volontà di qualcun altro. E non sto parlando della volontà di dio, ma di quella di altri esseri umani più furbi, che non credono mai così alla lettera nello stesso dio come chiedono di fare a noi.

 

Scegliete con attenzione il vostro dio, non permettete mai che siano altri a sceglierlo per voi.

 

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