Campane moleste

fra-martino

Abitare in centro al paese è bello, per tanti motivi, tipo che per fare una bella passeggiata non si deve prendere la macchina.

Abitare in centro può però essere anche brutto, se si ha a che fare con un campanile.

Il campanile è un edificio tutto particolare, uscito direttamente dal medioevo. Serviva a comunicare gli orari della vita religiosa e privata degli antichi cristiani, sprovvisti di orologio. Per la più classica delle tradizioni che siccome si è sempre fatto così, allora andiamo avanti senza pensarci troppo, non vi è chiesa che non venga costruita senza campanile, e non vi è campanile che non tenga fede al suo nome ospitando sulla sua cima un po’ di campane. A questo punto le campane possono comunicare a tutto il paese i loro messaggi, che più o meno sono questi:

  • serie di rintocchi bassi a distanza di circa un secondo, seguiti eventualmente da rintocchi più alti: è il segnale orario. I primi sono le ore, gli altri i quarti d’ora o le mezzore a seconda della convenzione del luogo.
  • Rintocchi alti e distanti: è la chiamata al rito, fatta in genere pochi minuti prima. Magari chi è ancora in casa arriverà tardi, a meno che non sia un sacrestano ritardatario, ma può essere utile per chi sta leggendo il giornale al bar della piazza, o è indeciso se parcheggiare o meno in seconda fila
  • Scampanate di sabato mattina: una coppia ha deciso nonostante tutto di sposarsi in chiesa, per far contenta la vecchia zia bigotta, ma zitella e benestante
  • Rintocchi funerei: è morto qualcuno. Forse la zia qui sopra, alla notizia che l’ultimo nipotino rimasto è gay ed è andato a sposarsi in Friuli

Più ancora altri segnali vari ed eventuali, ad indicare cerimonie, feste comandate e quant’altro. Ce n’è per tutti i gusti.

Uno di questi segnali in particolare mi risulta molesto ed incomprensibile. L’ho chiamato la scampanata fracassona e senza senso a 20 alle 7 di mattina. Proprio non ne colgo il significato: la prima messa è alle 7, ed è ovviamente dotata già dei suoi rintocchi di rito a 5 alle 7. La scampanata fracassona è un’altra cosa. In particolare:

  • non sembra seguire nessuna regola di armonia: forse si tratta di musica dodecafonica, ma è più probabile che sia solo cacofonica
  • è sempre uguale nel suo fracasso, quindi anche se potrebbe far pensare ad un collaudo mattutino del parco campane ad opera di un diacono pazzo, in realtà segue una sua misteriosa costanza
  • è rumorosissima. l’attacco in particolare viene fatto da quasi tutte le campane contemporaneamente, per poi proseguire in una sbrodolata furiosa di ardite dissonanze. Una spiegazione verosimile è che è passato un po’ di tempo dall’ultima volta che hanno fatto la pulizia dello spartito nel tamburo rotante della macchina campanaria, e nel frattempo ci siano finite alcune generazioni di mosche morte ad arricchire la melodia iniziale. Qualcosa del genere:
Il Signore delle  Mosche ha colpito ancora
Il Signore delle Mosche ha colpito ancora
  • è una gran rottura di scatole: molta gente a quell’ora è già sveglia, come il sottoscritto, ma c’è chi può dorme ancora volentieri, come la mia amata, o chi potrebbe dormire ancora un poco, ma al primo rumore si sveglia con grande entusiasmo e voglia di fare, come il nostro pirata di due anni, costringendo tutta la famiglia all’inizio ufficiale delle attività
  • c’è anche di sabato e domenica, giorni in cui tutti vorremmo dormire un po’ di più, e ci troviamo invece ad intonare un’ode mattutina per voci e campane a base di bestemmie ed imprecazioni

Non ho ben chiaro se queste scampanate ci siano tutte le mattine o se invece coincidano con eventi particolari dell’anno liturgico dei cattolici. So solo che da quando fa molto caldo e le finestre stanno aperte di notte, la mattina la sveglia è questa qui. Che poi sfortuna vuole che la posizione della finestra della camera da letto dell’infante filibustiere particolarmente esposta:

Il campanile molesto, ben visibile dalla finestra
Il campanile molesto, ben visibile dalla finestra

Insomma, un po’ è sfortunato. O meglio: lo siamo noi, visto che lui prende sempre la sveglia mattutina con un certo entusiasmo. Ma non intendo farlo dormire in cucina o in bagno solo per via di un prete con un concetto un po’ medievale sui disturbi alla quiete pubblica.

Quindi, dopo una breve navigazione nei mari procellosi dell’Internet sono approdato, come spesso accade, sull’isola di rancorosa serenità dell’ateismo italiano. Qui ho trovato conforto ed assistenza al mio problema in una pagina intitolata, neanche a dirlo, campane.

La spiegazione della questione è semplice: in Italia vige il concordato tra chiesa e stato. Lo stato è quello italiano, e la chiesa è quella cattolica, in situazione di privilegio. Se un muezzin si mettesse a salmodiare 5 volte al giorno da un balcone in centro al paese, sicuramente le autorità interverrebbero con più zelo che non a legare delle campane spaccatimpani.

Secondo il concordato, il parroco di turno può molestare tutto il paese con il suono delle campane esclusivamente durante le celebrazioni di un rito. Quindi, se c’è una messa alle 3 di notte, allora può renderne partecipe tutti quelli che per un motivo o per l’altro non sono riusciti a parteciparvi. Altrimenti deve rispettare le regole sull’inquinamento acustico. Anche lui, come ogni altro bravo cittadino. A 20 alle 7 di messe non ce ne sono, grazie al Flying Spaghetti Monster, quindi niente scampanate moleste, per favore.

A questo punto si può chiedere un intervento dell’ASL o dell’ARPA. Ma la cosa migliore, suggeriscono gli amici miscredenti dell’UAAR, è di fare intervenire il comune, che così si sobbarca lui le questioni tecniche. Basta chiedere il modulo e il resto viene da sé.

Gli amici dell’UAAR hanno prontamente risposto alla mia lettera per la richiesta del modulo da mandare al sindaco del paese, ed io l’ho adattato alle mie esigenze. Ecco qui quello che è stato infilato nella busta della raccomandata per il sindaco:

Campane moleste: un documento per il sindaco
Campane moleste: il documento per il sindaco

Qui il testo ad uso dei copia ed incolla:

Al Sindaco
del Comune di Gussago

a mezzo raccomandata a/r
Oggetto: immissioni acustiche provocate dal suono di campane della parrocchia di Santa Maria Assunta – richiesta di intervento.
Dalla nostra abitazione, sita in piazza Enrico Morganti 42 a Gussago, ci troviamo in una condizione di forte disagio dovuto al frastuono generato dal campanile della parrocchia di Santa Maria Assunta, sita in via Don Mongotti 1. In particolare ci siamo resi conto che, dovendo tenere le finestre aperte per il caldo, è già il terzo giorno di fila ad oggi che le campane iniziano a suonare all’impazzata alle 6 e 40 di mattina. La cosa ci disturba particolarmente, avendo noi un bambino di quasi due anni che viene sistematicamente svegliato da questo fracasso. La camera da letto del piccolo è posizionata proprio in vista del campanile molesto.

Tali immissioni sonore appaiono superiori ai limiti di cui al d.P.C.M. 14 novembre 1997, recante la Determinazione dei valori limite delle sorgenti sonore.

Si ricorda che anche le immissioni sonore prodotte dalle campane sono tenute a rispettare i limiti di legge, dal momento che nessuna disposizione esonera le chiese dall’osservanza di tale normativa, come del resto ha più volte riconosciuto la giurisprudenza civile e penale.

Si ricorda inoltre che il Comune, ai sensi dell’art. 7, comma 1, lett. g) e dell’art. 14, comma 2, della legge 26 ottobre 1995, n. 447, Legge quadro sull’inquinamento acustico, è tenuto a svolgere il servizio di vigilanza per l’inquinamento acustico derivanti da sorgenti fisse.

Pertanto si invita codesta amministrazione a verificare, anche attraverso le competenze tecniche delle agenzie regionali dell’ambiente, se le immissioni sonore generate dalle campane della parrocchia di Santa Maria Assunta superino i livelli massimi consentiti dalla legge; ad attivare il proprio potere sanzionatorio in materia; ad adottare tutti i provvedimenti necessari, anche ai sensi dell’art. 9 della legge n. 447 del 1995, per garantire la tranquillità e la salute delle persone, pregiudicate dall’inquinamento acustico proveniente dalla suddetta sorgente.

Avverte che, in difetto di un sollecito intervento di codesto Comune, si agirà contro l’inerzia dell’amministrazione.

Con osservanza.

6/6/2015
Devoto Alberto

Mi piace il concetto di mettere il sindaco contro il prete, in un moderno scontro tra potere secolare e temporale, impero contro papato, persona eletta dal basso democraticamente contro persona nominata dall’alto per intercessione divina. Sempre che il sindaco faccia il suo dovere, ma per questo l’UAAR ha aggiunto giusto un’ultima frase minacciosa appena sopra la firma. Questo probabilmente per le esperienze passate riportate sulla loro pagina in cui alcune giunte si sono rivelate particolarmente baciapile nei confronti dei diritti dei preti di esercitare la loro rumorosa arroganza. Ma, si sa, questi politici sono sempre a caccia di voti, e da quelle parti se ne trovano parecchi.

Che si fa? Si aspetta la risposta del sindaco, massimo sessanta giorni. Ne parleremo quindi tra massimo sessanta concerti.

Il misterioso mondo del non-vitello non-tonnato e dei suoi piccoli amici

Un paio di anni fa, alla stessa festa, ho mangiato nel giro di due sere una delle pietanze più sorprendenti, ed uno dei panini più terrificanti. La cosa pazzesca è che provenivano dalla stessa cucina, per mano probabilmente dello stesso cuoco. Un cuoco vegano.

Cosa c’era di diverso tra il primo piatto ed il secondo? Erano due categorie completamente differenti. Il piatto buono era sostanzialmente un’insalata. Il piatto cattivo era un panino alla plastica.

L’insalata era ricca e fantasiosa, piena di ingredienti affascinanti alla vista e gustosi al palato. Ogni boccone mi faceva sentire un povero ignorante che ha sempre considerato la caprese col tonno come l’insalata più buona che si potesse mai fare.

Il panino invece era qualcosa di imbarazzante e senza senso, a partire dal nome stesso. In realtà tutti i panini avevano dei nomi senza senso. Se la regola per le insalate nel menù era di elencarne gli ingredienti, per i panini doveva essere sufficiente un aggettivo: panino gustoso, panino ricco, panino creativo. Non mi ricordo bene che panino ho scelto, ma sono sicuro che io ed il mio compare abbiamo preso due tipi di panino diversi per trovarci poi nel piatto lo stesso panino, di un terzo tipo. Perché gli altri erano finiti. Già che ci sono, specifico che se abbiamo optato per dei panini accompagnati da aggettivi sospetti, era perché anche tutti gli altri piatti erano finiti. Questi panini non erano la versione fast food dell’insalata del giorno prima, ma già dall’aspetto facevano capire di voler essere un’imitazione povera ma pretenziosa di un hamburger in chiave vegana. Quello che penso ancora prima di infilarlo in bocca per iniziare a morderlo, è che la dieta vegana vuole battere quella carnivora dove la seconda è più forte. Quando lo mordo inizio a credere che questo tentativo sia un suicidio.

Già: non sono più sicuro che questo non-panino dall’aggettivo simpatico sia commestibile. Mentre mi sforzo di triturarne il contenuto con i miei allenati denti da carnivoro, ho il tempo di farmi una domanda:

perché gli hamburger classici sono così buoni?

Perché siano essi presi in una nota catena americana, che in un piccolo bar di paese, in autostrada o dal doner kebab in stazione, seguono tutti le regole sacre del panino, descritte magistralmente nel quinto libro della trilogia più spaziale di tutti i tempi. I panini fatti come si deve contengono, in ordine di importanza:

  1. uno strato di animale morto più o meno trattato
  2. una salsa ricavata in genere dai fluidi di un animale vivo o da un embrione
  3. delle verdure

 

Cosa accade se al posto del primo ingrediente ci metto, ad esempio, uno strato di cartone compresso, e al posto della salsa una sua versione a base di acqua e soia? Ricavo un oggetto che si fa fatica a chiamare cibo, e di cui il cliente vegano è il primo a starci alla larga.

E allora, mentre mi sforzavo di ingoiare questo delirio a strati, il mio pensiero andava nostalgico alla insalata del giorno prima, bella d’aspetto e deliziosa in bocca, tra il dolce della salsa, l’amaro dei semini di sesamo, e la trasgressione untuosa della fetta di torta di ceci come companatico. Perché un cuoco che è in grado di prepararmi un piatto così buono, deve tentare di uccidermi il giorno dopo? E’ la vendetta del vegano nei confronti di noi consumatori di risorse e generatori di crudeltà?

Ho dormito per alcuni mesi con questo mistero. Poi la mia amata si è iscritta ad un breve corso di cucina vegana organizzato nel circolo di alcune mie amiche. Ogni sera che tornava estasiata i suoi racconti erano per me un’esperienza unica. Apprendevo dell’esistenza di pietanze ricavate da non-animali affascinanti e misteriosi come ad esempio il non-vitello non-tonnato. Per prepararlo è necessario prima impararela ricetta della non-maionese. Attenzione che il non-uovo non impazzisca, mi viene subito da dire. Sembra che gran parte delle pietanze della cucina vegana siano delle imitazioni di qualcosa che in natura c’è già, ma con il difetto di avere almeno un ingrediente di origine animale. Come a dire che basta impegnarsi un po’, e noi vegani vi facciamo tutto quanto uguale, dalla non-carbonara al non-ragù alla bolognese, dal non-coniglio alla non-cacciatora al non-spiedo con i non-uccellini alla non-bresciana. Un tripudio di negazioni per la più nobile delle cause della cucina moderna.

Ai corsi segue una cena vegana, stesso posto, stessi cuochi. La mia metà partecipa con alcune amiche curiose. Io non posso partecipare, perché con le amiche si fanno discorsi da donne. Colgo l’occasione per bermi qualche birra (vegana, chiaramente) con un amico nel bar del circolo. Quando ormai hanno servito la torta ed in cucina stanno rassettando, colgo l’occasione per intrufolarmi a salutare le mie amiche, ma soprattutto per una chiacchierata con uno dei cuochi vegani. Neanche a dirlo, era uno di quelli della festa con l’insalata divina e il panino della morte.

Questo cuoco non è un omone grosso e pericoloso alla Long John Silver, ma un ragazzo normale che fa catering vegani con la sua ragazza. Non è nemmeno anemico, magrolino o verdastro come in genere vengono dipinti i vegani da quei carnivori che li disprezzano dall’alto della loro più suberba ignoranza. Mi è sembrato subito una persona ben disposta e ragionevole, e questo ha reso ben disposto e ragionevole anche me.

Mentre mangiavo a sbafo una buona fetta di veg-torta al veg-cioccolato, scoprendo che al posto delle uova spesso si usano le banane come ingrediente incollante, ho occasione di fargli i complimenti per le insalate vegane. Ne avevo mangiata una sola cucinata da un vegano in vita mia, ma questo non vuol dire che non mi sentivo abbastanza esperto rispetto al resto dell’umanità, al punto di potergli dire che era buonissima! Quindi, una volta che ho fatto capire che sono sì un carnivoro, ma curioso e ben disposto, posso dirgli cosa mi affligge nella vita:

“ma i vostri panini al copertone, perché?”

Credo di averlo punto nel vivo. E’ chiaro che quella sera, una volta a casa, lui stesso non avrebbe aperto il frigorifero alla ricerca di una fetta di suola di Converse affumicata con cui imbottirsi un sandwich veloce. E lo ammette: quegli strati misteriosi e resistenti alla masticazione che occupano lo strato centrale dei loro panini altro non sono che un’imitazione ricavata dagli amidi (mi sembra di ricordare) per invogliare i non-vegani a provare la cucina vegana. Quindi, come fino ad allora mi rifiutavo di pensare, sono proprio degli strati di qualcosa di derivazione industriale che si preoccupa di imitare l’aspetto, la consistenza ed il sapore del prosciutto e degli affettati in genere. Fallendo su tutti i fronti nel più miserevole dei modi. Forse è un po’ che i vegani non mangiano un panino con la bresaola e non conservano un ricordo valido, ma quella cosa che c’era nel mio panino era veramente preoccupante. Dall’aspetto ho pensato volesse imitare la bresaola, se non altro per via del colore rosso violaceo uniforme, ma una volta in bocca il pensiero è andato più ad una grossa fetta di pongo e vinavil cotta al sole.

Faccio notare al cuoco quello quello che per me che lui sa già: “pensate che ad un carnivoro possa piacere una così misera imitazione di una delle cose che gli piacciono di più in assoluto come i panini con gli affettati?” ma non serve la risposta, che in ogni caso non arriva: le rispettive donne ci riportano ai nostri doveri, ed ognuno torna a casa sua.

L’estate seguente la festa vegana si sposta dal mio paesotto alla città: il posto è meno suggestivo ma ci si sta meglio, e ci sta una cambusa più ampia: il rischio che ti portino il panino sbagliato è minore. Ci vado con lo stesso amico dell’anno prima e con il mio primogenito, nato nel frattempo. Dal menù saltiamo a piè pari la sezione dei panini, per scegliere due gustose insalate vegane condite accompagnate da due altrettanto gustose birre artigianali. Dal momento che gli alcolici di regola sono vegani, sarò sempre ben disposto verso queste feste del cibo bestia-free. E anche qui ne usciamo più che contenti. Lo stesso pirata da passeggino apprezza le pietanze a tutto tondo, al punto che alla fine lascia pure indietro lo yogurt, e tocca finirlo a me. E per la prima volta in vita mia faccio la figura del vegetariano, ma nessuno ci dà peso.

Passano i mesi, e in un centro commerciale della città apre nientemeno che un fast food vegano. E’ di un franchising che risponde al nome di Universo Vegano. Dobbiamo mangiare prima del cinema, e passiamo a vedere cosa propone. E, accidenti a loro, mi ritrovo a precipitare di nuovo nei miei incubi a base di veg-imitazioni di carne e affini. Il menù l’ho preso, ma poi mi dava fastidio e l’ho buttato via. Fortunatamente qualcuno più bravo di me ne ha fatto alcune scansioni qui, che riporto.

 

Le veg-pizze e i veghiotti, tutti conditi col misterioso formaggio vegetale
Le veg-pizze e i veghiotti, tutti conditi col misterioso formaggio vegetale

 

I veg-panini e le veg-focacce, a base di veg-formaggio e di gustosa maionese vegetale
I veg-panini e le veg-focacce, a base di veg-formaggio e di gustosa maionese vegetale
I veg-contorni ed i veg-dolci, finalmente qualcosa di normale
I veg-contorni ed i veg-dolci, finalmente qualcosa di normale

E mi chiedo, ma funziona davvero allora questa roba? C’è davvero qualche carnivoro che si converte al veganesimo a colpi di veg-formaggio e prosciutto artificiale? Possibile che sia così difficile fare un menù in cui non ci sia almeno una pagina priva di qualche ingrediente simil-carnivoro per cercare invece di esplorare le meravigliose possibilità di una ricca dieta a base di vegetali?

A quanto pare sì, è molto difficile. Meglio proporre autentiche veg-prelibatezze a base di non-ingredienti quali:

  • il tonno vegetale (dove vive? Viene pescato negli orti più incontaminati usando dei veg-grissini come arpione?)
  • il salame vegetale bio
  • il würstel vegetale, probabilmente chiamato così perché ottenuto tritando molto finemente gli scarti di altre lavorazioni vegetali
  • il kebab vegetale, o vebab: immagino si tratti di una torre rotante di verdure miste progressivamente arrostite e tagliate. Questo, lo ammetto, sembra interessante.
  • il prosciutto veg, con tutta probabilità il copertone violaceo che mi sono ritrovato nel piatto un paio di anni fa. L’unico prosciutto che non va a male se lo si lascia fuori dal frigo per dei mesi.
  • la frittata vegetale, ovvero la frittata senza uova. non si faceva prima a dire che è una torta fatta con gli ingredienti che contiene? (es: torta di ceci, torta di soia…)
  • il filetto di lupino, che anche se la parola filetto fa pensare che sia ricavato da piccoli lupi, con ogni probabilità è fatto in realtà con i famigerati legumi dei Malavoglia.

Tutto quanto con la chiara intenzione di battere i carnivori proprio là dove sono imbattibili.

Quante sono le insalate proposte in questo ricco veg-menu? Una, un unico degno elemento di una categoria fatta apposta, che riposta quindi  il nome al singolare: INSALATA. Come si chiama quest’insalata solitaria? Ma ovviamente Vegan Salad. Cosa c’è dentro? Il meglio che si può offrire ad un carnivoro in disintossicazione; tra le varie cose, tonno veg, formaggio veg e, ovviamente, l’immancabile soia.

Quella sera un’insalata me la sarei mangiata volentieri. Forse ho sbagliato, ma alla fine mi sono ritrovato a mangiare un non-veg-hamburger da un’altra parte, fatto di autentico animale morto. Con i fast food vegani se ne riparlerà quando avranno capito un po’ di cose.

Perché gli atei sono più antipatici dei testimoni di Geova

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Già, perché? Perché questo gruppo di persone che si riconoscono nei più fini valori umanistici, che danno tutta questa importanza ad un etica libera dalle religioni, al progresso della scienza e tutto il resto, perché sono così antipatici?

Probabilmente perché alcuni di loro trovano piacere a sbatterti tutto questo in faccia non appena ti azzardi a dire che tra le priorità della tua vita c’è quella di soddisfare i desideri di un essere pandimensionale particolarmente schivo, al fine di scansarne le punizioni e, magari, di ottenere qualche ricompensa già adesso o da morto. Questa arroganza nei confronti dei credenti non va bene, perché è un atteggiamento poco conforme con lo spirito da illuminati che questi atei dovrebbero avere.

Non fanno tutti così. Il titolo magari è un po’ esagerato, ma se scrivevo:

Perché alcuni atei riescono ad essere antipatici quasi come il tipico testimone di Geova che ti suona il campanello di sabato mattina

Probabilmente l’articolo veniva letto da ancora meno gente del solito. ateo-al-campanelloCerto, se anche gli atei prendessero il brutto vizio di suonare i campanelli dei credenti di sabato mattina, sicuramente diventerebbero ancora più antipatici dei testimoni di Geova. E non credo che questo aiuterebbe molto nella loro causa. Se poi finissero a suonare ai testimoni di Geova sarebbe pure tempo sprecato, perché non ci troverebbero nessuno ad aprirgli.

E poi: se un ateo dice di sentirsi discriminato, direi che c’è chi sta molto peggio. Tipo le donne, che non possono andare in giro la notte o meno vestite di una suora di clausura senza che qualcuno possa sentirsi in diritto di avere rapporti sessuali con loro. O gli omosessuali, che c’è chi si ostina a volerli curare come se fossero dei malati, o a pensare che siccome sono differenti dai non-omosessuali, allora questa diversità deve essere pagata in termini di riconoscimento dei diritti fondamentali. Ma anche chi ha un colore della pelle diverso spesso viene mal giudicato per questo, come se essere di un certo colore altro non è che una indicazione per gli altri che in certe condizioni non mancherai di comportarti in certi modi poco graditi, e che se gli altri si comportano di conseguenza non è per razzismo, ma solo per prevenzione.

Insomma, ci sono tanti modi per essere discriminati, ma tra questi essere ateo è quello che fa più ridere. Faccio un elenco delle cose per cui vengono discriminati gli atei in Italia.

  1. Non possono dare l’8 per mille alla loro non-religione. Al massimo possono dare il 5 per mille alla loro associazione non religiosa. L’8 per mille è fatto per le religioni, e quindi se non credi in una religione sono fatti tuoi, e puoi solo scegliere la religione più simpatica, o la meno antipatica. Se consideri che lo stato in un modo o nell’altro poi dà comunque tutto alla chiesa cattolica, finisce che si sceglie la chiesa valdese, che se non altro usa l’otto per mille non per restaurare la casa in centro dei suoi cardinali, ma esclusivamente per fare beneficenza.
  2. Non possono ascoltare alla radio nazionale le prediche del loro non-papa o dei loro non-preti riguardo ai precetti morali consoni alla loro situazione di senza-dio.
  3. Non possono bestemmiare come si deve. Non credendo in dio, il nominarlo in modo ingiurioso perde tutto il gusto ed il significato. Tanto vale prendersela con il caso, la sfortuna o con la propria incapacità di prevedere gli eventi. Se lo si fa solamente per dar fastidio a chi in dio ci crede, allora si è solo dei cretini e maleducati, vedasi il titolo di questo articolo.
  4. Se sono minorenni non possono ricevere i regali che i parenti credenti forniscono generosamente in occasione dei vari riti religiosi di consacrazione: niente bicicletta, smartphone e oggetti costosi vari. La cosa ti fa rabbia, caro figlio di premurosi genitori miscredenti? E’ un problema tuo. E non puoi nemmeno bestemmiare.
  5. Se sono maggiorenni, devono comunque fare un regalo ai figli minorenni di amici e parenti che incorrono nel sacramento di turno, con in più la fregatura di doverlo fare controvoglia e col rischio che qualcuno te lo rinfacci. Se non altro se si è anche sbattezzati si evita l’onere di essere padrino/madrina e di dover quindi fare il regalo più grosso e costoso. Sembra poco, ma ci sono sacramenti cattolici per tutte le età, letteralmente da quando si nasce a quando si muore, e molti di questi sacramenti pretendono il regalo. Lo sbattezzo può salvarti in una buona percentuale di queste occasioni.
  6. Quando si sposa un amico metà delle volte questo avviene ancora in chiesa, e l’ateo o entra a disagio in questi luoghi lugubri e misteriosi, o aspetta al bar più vicino portandosi leggermente avanti con gli aperitivi. Ho messo questo punto tra gli svantaggi, ma credo che allo stato attuale delle cose in realtà molti credenti invidiano la possibilità di starsene fuori dalla messa come un privilegio esclusivo di chi non crede ufficialmente in quel dio.
  7. Quando muore una persona cara è brutto passare il tempo della messa al bar, anche perché comunque non c’è un ricco buffet a cui imbucarsi alla fine della cerimonia. Quindi o si fa la figura dei caproni che non vanno al funerale del caro amico, o si va alle veglie funebri, sperando di non incontrare il prete in visita, o si fa lo sforzo e si entra nel tempio, cercando di mettersi un po’ nascosti nelle ultime file. Altrimenti vi verrà rinfacciato.
  8. Se un ateo prova a candidarsi a qualche carica pubblica e si mette a distribuire volantini in cui si professa orgogliosamente ateo, sicuramente prenderà ancora meno voti che non se scriverà che è una lesbica di colore. Perché gli atei sono antipatici a chi non lo è. Magari sono simpatici agli agnostici e ai pastafariani, ma è ancora poco. Soprattutto se si parla di voti, anche perché un buon credente non vota un ateo a prescindere, perché sa già che chi non crede in dio è sicuramente una cattiva persona, mentre un ateo prima di votare un ateo magari si informa anche un po’ sul suo programma elettorale.

Di motivi ce ne saranno ancora, ma sono tutte sciocchezze, e derivano tutti dal fatto che gli atei sono pochi, e se sono pochi è perché quei pochi che ci sono sono pure antipatici e presuntuosi, e questo fa sì che rimangano sempre pochi.

tumblr_lbh2m2kpAX1qdbblao1_400In conclusione, se voi siete credenti, abbiate pazienza nei confronti degli atei: sono solo un po’ frustrati perché tutte le statistiche danno loro ragione, dicendo che sono persone più intelligenti, più attente, di migliore estrazione socioculturale, più aperte al dialogo, meno aperte ad ogni forma di delinquenza e così via, ma nonostante questo sono sempre pochi, mal sopportati e guardati con un misto di pena e timore da tutte le persone per bene.

Se siete atei, magari è ora di smetterla di stufare e di iniziare a godervi un po’ la vita. Alla fine siete nati in un’epoca buona per voi, visto che non vi bruciano al rogo e non vi torturano come era buona prassi della chiesa fino a pochi secoli fa. Oppure fate la cosa migliore, che è quella di convertirvi al Pastafarianesimo, la religione giusta per quelli come voi, per vari e validi motivi. Il primo tra tutti è che non è strettamente necessario che si creda nell’esistenza del divino, ovvero Sua Sugosità il Flying Spaghetti Monster, per ritenersi dei buoni Pastafariani; di conseguenza, sia che ci crediate o meno, ai fini pratici siete già seguaci del Divin Carboidrato. In secondo luogo, i suoi precetti morali sono abbastanza blandi, ma si trovano comunque a combaciare perfettamente con quelli di atei, agnostici e miscredenti vari; non dovrete cambiare idea in niente. Terza cosa, ci si ritrova ad appartenere alla religione più moderna e simpatica di tutti i tempi, che fa della filibusta e dell’ebrezza sociale la sua bandiera. Potrete andare avanti a professare il vostro ateismo senza problemi e senza la frequenza fissa di nessun luogo di culto, ma lo farete indossando dei simpaticissimi abiti pirateschi. Che, diciamocelo, a differenza di quegli stracci che vendono nei negozi del centro, questi non passano proprio mai di moda e tengono lontani i malintenzionati. Soprattutto se li si lava secondo il costume dell’epoca.

Contesti radiofonici

FSM-radio

 

Amo la radio, perché quando la si ascolta si possono fare tante altre cose, tipo cucinare, guidare, lavarsi i denti, preoccuparsi che un piccolo filibustiere di un anno e mezzo in cerca di nuove esperienze non si faccia del male. Non si può dire lo stesso del computer, che richiede una certa concentrazione, e in più attira le funeste attenzioni del citato minipirata. O peggio della televisione, che nonostante si discosti molto raramente dal passare programmi che non siano altro che un mucchio di maleodorante spazzatura, finisce comunque per calamitare l’attenzione di tutto il pubblico presente. Meno ovviamente del bambino, che sceglie quel momento per colpire qualche oggetto duro e spigoloso con la sua testa.

 

La radio è ancora più bella se si pensa che non si vede come è pettinato o vestito il conduttore, ma si sente solo la sua voce. E che questa voce è l’unico strumento che il conduttore ha per fare il suo mestiere, e quindi per convincerci a non girare la rotellina di sintonia della radio alla ricerca di una stazione con un conduttore che abbia una voce più gradevole, o qualcosa di più interessante da dire. Straordinariamente, molti famosi della televisione decidono prima o poi di passare alla radio. Questo per cercare di riscoprirsi in una vesta nuova e di mettersi alla prova, dicono loro, o più probabilmente perché in televisione il loro già insignificante talento è finito schiacciato miseramente dall’arrivo di una nuova generazione di inutili personaggi con l’unico pregio di essere più volgari e arroganti dei nostri fuggiaschi, e nel caso delle donne pure meno vestite. Insomma, la radio sa anche essere generosa e offre sempre asilo a questa schiera di miserabili. Ma è anche crudele, perché se in televisione uno era famoso per delle virtù non ben definite o per la fama stessa in quanto tale, è molto probabile che alla radio crollerà sotto il peso della sua arrogante nullità.

 

Insomma, alla radio ci si aspetta che si parli di qualcosa, che si affronti un argomento. Tale argomento è molto meglio se non è solo una chiacchierata salottiera tra un conduttore senza uno straccio di idea e di talento ed alcuni radioascoltatori che chiamano per dire la loro, spinti da inconcepibili manie di protagonismo; si finisce che una trasmissione nazionale va ad assomigliare alle annoiate discussioni che si stanno svolgendo in contemporanea in tutti i bar ed i parrucchieri d’Italia. Se voglio sentire persone qualunque che parlano di un argomento qualunque in modo qualunquista, allora è meglio spegnere la radio e andare in un bar qualunque o da un parrucchiere qualunque. O alla peggio su Twitter. Dalla radio mi aspetto di ascoltare qualcosa di interessante, che possa migliorarmi o perlomeno farmi riflettere.

 

Ma la cosa veramente affascinante della radio è che per molti versi rappresenta una delle frontiere dell’informazione, almeno quanto lo è Internet. Ma con Internet è facile: chiunque può dire la sua un po’ dappertutto: sul proprio sito nel ruolo di blogger, su quello di altri se si è dei troll, o addirittura su siti predisposti per fare dire la propria a tutti, se si decide di farsi risucchiare nel vortice informativo di un social network. E’ facile essere moderni e iconoclasti in Internet. Alla radio è diverso, perché la radio è comunque molto, molto vecchia, e per quanto ogni tanto si possa chiamare per dire la propria, rimane sempre un mezzo di comunicazione ad una sola direzione, in cui un tizio parla nel vuoto di un microfono, e se è bravo e l’orario non è proprio terrificante avrà la fortuna di avere un po’ di persone dall’altra parte che si lo ascolteranno senza poter rispondergli niente. Proprio per questo motivo, verrebbe da pensare che chi parla nei microfoni della radio voglia cercare un certo conformismo, per accontentare più persone possibile. A volte è così. Ma a volte no. E la cosa un po’ stupisce, in bene.

 

Per vedere quando la radio è conformista e quando non lo è, provo a rappresentare uno stesso scenario in due realtà un po’ diverse, come possono essere il primo canale della radio nazionale da un lato, ed una radio privata dall’altro. Come momento prendiamo la mattina di lunedì 6 aprile 2015. Per definire meglio il contesto, spiego che quel giorno era festa nazionale, essendo che il giorno prima i cattolici hanno festeggiato la ciclica risurrezione del loro dio mutaforma, e quindi necessitano un lunedì intero per riprendersi dai sacri fumi dell’incenso dei loro templi e dai più profani bagordi dei pranzi di famiglia. Quindi si sta tutti a casa per un giorno.

 

culto-evangelicoScenario numero 1: Radio 1, la radio nazionale

Qui le mattine delle domeniche e di tutte le feste cattoliche comandate sono occupate in toto da ogni forma di rubrica di stampo religioso: giornalisti ossequiosi, preti, vescovi e papi si alternano con ordine e timorata reverenza per dire la loro sulla loro divinità in una gara di ossequiosa deferenza. Alcune di queste trasmissioni permettono anche ad alcuni radioascoltatori di chiamare, purché adeguatamente selezionati. Per capirci, non ho mai sentito nessuno chiamare che si professasse dubbioso, pastafariano, satanista o, peggio ancora, ateo. La telefonata assume sempre i toni di una confessione o di un atto di fede, una specie di tentativo grossolano da parte del radioascoltatore di ingraziarsi i favori del suo dio, ma operato su scala nazionale.

 

Non voglio annoiarvi a morte con un resoconto completo. Se è questo che volete, potete accendere Rai Radio 1 nella mattina di un qualsiasi giorno di festa, e vi beccate un autentico campione in tempo reale. Vi faccio un breve riassunto indolore:

 

  • Giornalista ossequioso: sentiamo se c’è qualcuno in linea, pronto…
  • Radioascoltatrice timorata di dio: buongiorno a tutti, sono Crocifissa Addolorata, e chiamo da Monte Pio. Volevo farvi i complimenti per la bellissima trasmissione!
  • Prete presente per vigilare sul buon esito della trasmissione: che dio sia con te, cara Crocifissa Addolorata!

 

e via andare tra ringraziamenti reciproci e salamelecchi vari.

 

dr-feelgoodScenario numero 2: La radio privata

Se cambiamo contesto, cambiano anche i toni. Non siamo più nella riserva religiosa protetta della radio nazionale, ma in una radio privata. Neanche a dirlo, nel lunedì indicato stavo proprio ascoltando una di queste radio: cercherò quindi di ispirarmi ad una conversazione reale. Stiamo parlando della trasmissione Buongiorno Dr. Feelgood di Virgin Radio. La trasmissione funziona più o meno così: il DJ mette i dischi e ne parla brevemente. Ogni tanto un radioascoltatore chiama. Il DJ parla di tutto in un modo entusiasta e clamoroso, forse un po’ fuori luogo per l’orario mattutino. Probabilmente si sforza di mettere un po’ di buon umore in chi per cause esterne si è alzato prima di quanto avrebbe voluto, come il sottoscritto. Oppure il nostro uomo ha un serio problema di dipendenza di sostanze psicotrope.

 

Ecco più o meno a memoria mia la divertente telefonata che ho ascoltato:

 

  • DJ: buongioooorno da Doctor Fellgooooooood! Chi sei e da dove chiami?
  • A: Ciao, sono Annunziata e chiamo da Paesopoli.
  • DJ: Ciao Annunziata! E dicci, come farai in questa domenica di pasquetta?
  • A: Beh, tra poco andrò a messa, e poi andrò a pranzo da mio padre.
  • DJ: Ah! Sei credente quindi.

 

E la conversazione va avanti, ma al nostro uomo manca un po’ del suo nativo entusiasmo. Per alcuni momenti si avverte molto chiaramente il suo disagio, come se stesse portando a passeggio al parco l’ultimo esemplare femmina di ratto cincillà boliviano, senza guinzaglio. Alla fine però il professionista ne esce con una eleganza tutta sua, mettendosi a parlare di Bruce Springsteen e di come i suoi concerti assomiglino molto ad una celebrazione eucaristica. bruce-popeAnnunziata acconsente timidamente: un attimo prima si è detta una fan del Boss, ma forse trova il paragone un po’ blasfemo, e ha paura che ad accettare il paragone in modo troppo entusiasta scatenerebbe le ire vendicative del suo dio di misericordia. O forse si sta chiedendo come sarebbe andare ad un concerto rock tutte le domeniche mattina, con Bruce Springsteen in abiti talari e la E Street Band sull’altare dell’organo al posto del tizio polveroso con la chitarra e il maglione a girocollo. Anch’io ho i miei dubbi riguardo a questo paragone: non sono mai stato ad un concerto di Bruce Springsteen, ma me li hanno sempre descritti come straordinariamente divertenti e coinvolgenti, e non conservo un ricordo del genere delle messe parrocchiali.

 

Cosa c’è di strano in tutto questo? Come prima cosa, che una ragazza apparentemente normale chiami Virgin Radio per dire che va a messa. E non con l’aria di martirio di un’appartenente ad una di quelle pseudosette cattoliche di timidi missionari da oratorio, tipo focolarine o chissà cosa, magari in un disperato tentativo di fare proseliti in un territorio ostile. Ha detto che stava per andare a messa con un tono normale, come se io chiamassi alla radio per dire che sto per cambiare la sabbia del gatto o che sto facendo un bucato di mutande e calzini. Solo che la radio è strana, perché parlare di messe non è come parlare di cacche di gatto o di biancheria puzzolente. E’ come se la radio fosse una specie di porto franco alloggiato in una dimensione parallela in cui chi va a messa e quindi crede in una antica divinità è uno stramboide mbarazzante ed imprevedibile da trattare a distanza con riguardo ed attenzione. Insomma, diciamocelo: la radio privata è un posto normale, un mass media dedivinizzato.

 

So cosa state pensando, che non tutte le radio sono così. Anzi, proprio le radio dalle frequenze iù invadenti sono quelle che sgranano rosari dalla mattina alla sera, e alternano le telefonate di pie donne preoccupate su come va il mondo agli anatemi di preti medievali scagliati contro un mondo che si ostina a non volerli ascoltare nell’ostinata ricerca a migliorarsi invece che a ad arretrare. Vero. Ma considerando l’età media di conduttori ed ascoltatori, non ci darei troppo peso: nemmeno il tempo di una generazione possa risolvere il problema da sé.

 

Quello che alla fine mi fa amare la radio molto più della sua erede degenere chiamata televisione, è che è discreta. Per usare una televisione occorre starle davanti senza oggetti in mezzo. Questo perché funzionano con le immagini, e queste non vogliono ostacoli e vanno solo dritte. Quindi con il tempo le televisioni sono diventate sempre più grandi, per farsi vedere meglio da più persone allo stesso tempo, e hanno conquistato con sempre maggior prepotenza il ruolo dominante in una o più stanze di ogni casa. I salotti ormai andrebbero chiamati “stanze della televisione”, dato che tutti gli arredamenti sono orientati intorno al grande idolo televisivo. La radio invece usa i suoni, che sono più intelligenti delle immagini. Dato che i suoni rimbalzano sugli oggetti, succede che vanno un po’ ovunque senza troppi problemi. space-odissey-monolithQuindi le radio non devono per forza stare in mezzo ad una stanza o essere gigantesche per funzionare bene. Possono stare su un comodino, sopra un mobile, in tasca. E funzioneranno sempre bene. E la qualità delle radiotrasmissioni non verrà giudicata quasi mai in base alle dimensioni dell’apparecchio che le trasmette, come accade invece per la televisione. Se impariamo ad amare la radio invece della televisione, finisce pure che evitiamo di spendere interi stipendi per ingombrare le stanze di casa nostra con dei grossi monoliti neri da adorare tutte le sere, e possiamo investire le stesse risorse di tempo e denaro in altro modo. Tipo in uno di quei rari locali che vendono ancora birra senza che l’incasso sia devoluto a chi gli vende le immagini di partite di calcio proiettate dai televisori appesi in ogni stanza.

Il Gioco dei Papi

superpope

 

Questo papa è proprio straordinario. Nonostante sia stato eletto ormai da un paio di anni, non passano comunque due giorni di fila senza che faccia parlare di sé per qualcosa di eccezionale, che ce lo faccia amare ancora di più di quanto già non facevamo il giorno prima. E’ proprio incredibile quanto si possa voler bene ad una persona, in un modo così appassionato e viscerale. Soprattutto se si evita di chiedersi cosa è poi cambiato davvero nella chiesa cattolica in questi due anni, da giustificare tutto questo amore.

 

Quello poi che mi sembra veramente pazzesco è che un individuo di una portata così esagerata possa essere vissuto in sordina in Argentina per tutti questi anni, passando pure indenne e immacolato attraverso un regime militare, senza che dalla sua terra natale non ne sia giunta voce a noi, qui nella vecchia Europa. Ma non lo si poteva eleggerlo papa che so, tipo sessant’anni fa? Non oso immaginare dove sarebbe la chiesa adesso. Probabilmente un po’ più arretrata sul piano del riconoscimento dei diritti umani, ma sicuramente con molti fedeli entusiasti in più.

 

L’unica cosa che mi rende molto triste quanto sento tutte queste lodi sperticate è il pensiero al papa precedente, che neanche a dirlo è ancora vivo, e potrebbe rimanerci male. Come vivrà questo continuo e logorante confronto dal suo luogo di ritiro? Perché il paragone tra i due è proprio inclemente: tanto il secondo eccelle in ogni gesto mediatico, tanto il primo veniva sistematicamente ripreso per via di un modo di fare più tradizionalista, un carattere forse più schivo, o magari per la preoccupante somiglianza con l’imperatore malvagio di un noto impero galattico.

 

Per rendere ragione a questo papa passato ma ancora vivente, ma anche ad altri papi del passato che soffrirebbero terribilmente il paragone con Francesco il Magnifico, ho inventato un gioco. Ci si può giocare anche da soli, ma per farlo occorre fare riferimento alle avventure di minimo due papi. Ho deciso quindi di chiamarlo con grande originalità

 

il Gioco dei Papi

 

Cosa serve per giocare al gioco dei papi:

  1. una qualsiasi fonte di informazione asservita alla chiesa cattolica
  2. un gruppo di simpatici amici (per la versione di gruppo)
  3. alcolici di proprio gusto

 

Come si gioca:

Come prima cosa si decide quale deve essere la fonte di informazione. Può essere un periodico, un sito Internet, la televisione o la radio. L’unica cosa importante, come specificato nei punti del materiale necessario, è che tale fonte di informazioni sua scelta tra i numerosi mass media schierati, ovvero che fanno a gara a decantare le virtù dell’attuale, simpaticissimo pontefice. Scordatevi quindi di scegliere una delle testate di atei, pastafariani o comunisti che leggete di solito, perché con queste riviste il gioco non funziona.

 

Io, per esempio, ho scelto questa pagina qui, tratta da una sezione del sito del quotidiano “La Stampa” interamente dedicata alle avventure del papa più buono di tutti.

 

Una volta definito il terreno di gioco, a turno i giocatori devono leggere una frase, andando però a riadattare in tempo reale i contenuti su altri papi della storia a cui la straordinaria magnificenza dell’attuale papa si contrappone. Per esempio, nella pagina che ho scelto si dice:

 

Il Pontefice mette al centro una comunicazione a dimensione umana. Per papa Francesco il grande continente digitale non è semplicemente tecnologia, ma è formato da uomini e donne reali che portano con sé le proprie ansie, la ricerca del vero, del bello e del buono

 

Che belle parole, per una persona tanto straordinaria. Noi possiamo adattare questo periodo, ad esempio, al papa precedente:

 

Il Pontefice mette in disparte la comunicazione a dimensione umana. Per papa Benedetto il grande continente digitale è pura tecnologia, perché è formato da uomini e donne virtuali che portano con sé la propria arroganza, la ricerca di falsità, brutture e cattiverie.

 

Oppure:

 

Dio parla attraverso gli avvenimenti quotidiani e Papa Francesco ci spinge verso una mistica che dona spessore all’attualità, imparando a sentire, a vedere Dio che non si stanca mai di operare in ogni momento della nostra vita, della storia

che per il papa prima si riscrivere così:

 

Dio ci parla solo in casi eccezionali e Papa Benedetto ci frena con una mistica che vuole rendere inconsistente l’attualità, smettendo di ascoltare e coprendosi gli occhi di fronte ad un Dio che ormai ha rinunciato di operare in ogni momento della nostra vita, della storia

e così via.

 

Beve per punizione chi si sbaglia e attribuisce ingiustamente ad un papa del passato i meriti del papa attuale.

 

Il gioco finisce, come al solito, quando non c’è più niente da bere o da dire.

 

Ecco l’articolo citato con l’adattamento al papa precedente a destra:

 

versione originale dedicata a papa Francesco I

versione adattata a papa Benedetto XVI

Intervista a Claudio Maria Celli, presidente del Pontificio Consiglio delle Comunicazioni Sociali

Intervista a Claudio Maria Celli, presidente del Pontificio Consiglio delle Comunicazioni Sociali

A sorpresa verrà annunciato un riconoscimento speciale che sarà consegnato in un’udienza in Vaticano il prossimo mese nell’ambito del prestigioso premio giornalistico internazionale “Argil: uomo europeo”- quarta edizione. Senza alcun colpo di scena, nessun riconoscimento speciale verrà consegnato in Vaticano il prossimo mese nell’ambito del prestigioso premio giornalistico internazionale “Argil: uomo europeo”- quarta edizione.
La proclamazione ufficiale avrà luogo alle 12 di venerdì 13 dicembre, nello “Spazio Europa” della rappresentanza in Italia della Commissione Europea, via IV Novembre 149 Roma, preceduta alle 10 da un tavola rotonda sul tema “Quali sinergie di comunicazione istituzionale per (ri)avvicinare i cittadini all’Unione Europea?” Non ci sarà quindi alcuna proclamazione ufficiale alle 12 di venerdì 13 dicembre, nello “Spazio Europa” della rappresentanza in Italia della Commissione Europea, via IV Novembre 149 Roma, e non ci sarà nessuna tavola rotonda sul tema “Quali sinergie di comunicazione istituzionale per (ri)avvicinare i cittadini all’Unione Europea?”
“Quella del Papa è una comunicazione a dimensione umana”, a tracciare il profilo del “Francesco comunicatore” è l’arcivescovo Claudio Maria Celli, presidente del Pontificio Consiglio delle Comunicazioni Sociali. “A cinquant’anni dalla ‘Inter Mirifica’ si è passati dai mezzi di comunicazione sociale alla cultura mediatica”, afferma a Vatican Insider monsignor Celli. “Quella del Papa è una comunicazione a dimensione puramente divina”, a tracciare il profilo del “Benedetto comunicatore” è l’arcivescovo Claudio Maria Celli, presidente del Pontificio Consiglio delle Comunicazioni Sociali. “A cinquant’anni dalla ‘Inter Mirifica’ si è passati dai mezzi di comunicazione sociale alla totale chiusura mediatica”, afferma a Vatican Insider monsignor Celli.

Come si caratterizza la comunicazione di papa Bergoglio?

Come si caratterizza la comunicazione di papa Ratzinger?

“Il Pontefice mette al centro una comunicazione a dimensione umana. Per papa Francesco il grande continente digitale non è semplicemente tecnologia, ma è formato da uomini e donne reali che portano con sé le proprie ansie, la ricerca del vero, del bello e del buono. A questo proposito ricordo che oltre un miliardo e duecento milioni di persone abitano una delle grandi reti sociali, Facebook, che è uno dei “paesi” più grandi del mondo, senza barriere. Molti di loro non entreranno mai in chiesa, ma anche a loro abbiamo il dovere di annunciare il Vangelo, pertanto la Chiesa e i suoi pastori devono essere in quest’ambiente, devono evangelizzare in Internet, non attraverso Internet, perché è nell’ambiente della rete che sono chiamato ad essere chi sono”. “Il Pontefice mette in disparte la comunicazione a dimensione umana. Per papa Benedetto il grande continente digitale è pura tecnologia, perché è formato da uomini e donne virtuali che portano con sé la propria arroganza, la ricerca di falsità, brutture e cattiverie. A questo proposito cerchiamo di dimenticare che oltre un miliardo e duecento milioni di persone abitano una delle grandi reti sociali, Facebook, che è uno dei “paesi” più grandi del mondo, senza controlli. Molti di loro non entreranno mai in chiesa, e per questo motivo abbiamo deciso di non perdere tempo a portare loro il Vangelo, pertanto la Chiesa e i suoi pastori devono ignorare quest’ambiente, devono condannare Internet, non attraverso Internet, perché è nell’ambiente della rete che non si è in grado di rispondersi su chi si è veramente”.

Qual è la lezione di Francesco, che domani sarà proclamato comunicatore europeo dell’anno e ieri è diventato l’uomo del 2013 secondo la rivista Time?

Qual è la lezione di Benedetto, che domani non sarà proclamato comunicatore europeo dell’anno e ieri è non diventato l’uomo del 2013 secondo la rivista Time?

“Dio parla attraverso gli avvenimenti quotidiani e Papa Francesco ci spinge verso una mistica che dona spessore all’attualità, imparando a sentire, a vedere Dio che non si stanca mai di operare in ogni momento della nostra vita, della storia. Sentire, percepire, riconoscere il Mistero divino ogni istante, imparare a rinascere con Cristo sempre presente, innamorarsi dell’Infinito attraverso l’istante fugace in ogni cosa! Così il Papa ci interroga: ‘Come sono le nostre omelie?’ ‘Via queste omelie interminabili, noiose, delle quali non si capisce niente.’ L’icona di Emmaus è un modello di comunicazione coraggiosa, proposto da Papa Francesco ai Vescovi brasiliani, ma valido anche per noi in Europa. ‘Serve una Chiesa che non abbia paura di entrare nella loro notte. Serve una Chiesa capace di incontrarli nella loro strada. Serve una Chiesa in grado di inserirsi nella loro conversazione. Serve una Chiesa che sappia dialogare con quei discepoli, i quali, scappando da Gerusalemme, vagano senza meta, da soli, con il proprio disincanto, con la delusione di un Cristianesimo ritenuto ormai terreno sterile, infecondo, incapace di generare senso’”. “Dio ci parla solo in casi eccezionali e Papa Benedetto ci frena con una mistica che vuole rendere inconsistente l’attualità, smettendo di ascoltare e coprendosi gli occhi di fronte ad un Dio che ormai ha rinunciato di operare in ogni momento della nostra vita, della storia. Sentire, percepire, riconoscere il Mistero divino il meno possibile, imparare a fare a meno di un Cristo invadente, disilludersi di fronte al percepibile a causa della materialità di ogni cosa! Così il Papa ci interroga: ‘Come sono le nostre omelie?’ ‘Bisogna insistere con queste omelie interminabili, noiose, delle quali non si capisce niente.’ L’icona di Emmaus è un modello di comunicazione pericolosa, segnalata da Papa Benedetto ai Vescovi tedeschi, ma da evitare anche da noi in Europa. ‘Serve una Chiesa che se ne guardi bene dall’entrare nella loro notte. Serve una Chiesa che eviti di incontrarli nella loro strada. Serve una Chiesa impossibilitata ad inserirsi nella loro conversazione. Serve una Chiesa che sappia chiudersi a quei discepoli, i quali, scappando da Gerusalemme, vagano senza meta, da soli, con il proprio disincanto, con la delusione di un Cristianesimo ritenuto ormai terreno sterile, infecondo, incapace di generare senso’”.

E’ ancora forte l’ispirazione del Concilio sui “comunicatori di Dio”?

E’ ancora forte l’ispirazione del Concilio sui “comunicatori di Dio”?

“Inter Mirifica apre la serie dei documenti emanati dal Vaticano II e a distanza di cinquantanni, rappresenta una tappa fondamentale nel rapporto tra la Chiesa e la comunicazione, pur con alcune debolezze che il successivo magistero cercherà di colmare. É la prima volta, infatti, che un Concilio ecumenico discute di comunicazioni sociali, ‘strumenti’ fondamentali nella missione della Chiesa, capaci di arrivare lontano con facilità, rapidità e fascino. Al tempo del Concilio i prodotti della tecnologia permettevano al mondo di far vivere in tempo reale gli avvenimenti. Oggi radio, televisione, carta stampata sono stati affiancati, in qualche caso superati, da altre cose meravigliose, computer, internet, cellulari e siamo di fronte ad una rivoluzione che all’epoca dell’Inter Mirifica era solo all’inizio, ma che allora, come attualmente, con modalità diverse, incideva profondamente sulle mentalità e gli stili di vita”. “Inter Mirifica apre la serie dei documenti emanati dal Vaticano II e a distanza di cinquantanni, rappresenta una tappa ormai senza significato nel rapporto tra la Chiesa e la comunicazione, pur con alcuni punti di forza che il successivo magistero cercherà di aggirare. É l’ultima volta, infatti, che un Concilio ecumenico discuterà di comunicazioni sociali, ‘strumenti’ sempre meno importanti nella missione della Chiesa, capaci di arrivare lontano con difficoltà, lentezza e fastidio. Al tempo del Concilio i prodotti della tecnologia hanno provocato la possibilità al mondo di far vivere in tempo reale gli avvenimenti. Oggi radio, televisione, carta stampata sono stati affiancati, in qualche caso superati, da altre cose terribili, computer, internet, cellulari e stiamo assistendo impotenti ad una rivoluzione che all’epoca dell’Inter Mirifica era solo all’inizio, ma che allora, come attualmente, con modalità diverse, faceva già gravi danni sulle mentalità e gli stili di vita”.

Eppure la Inter mirifica ebbe forti resistenze….

Infatti la Inter mirifica ebbe forti resistenze….

“Un anno dopo la sua promulgazione, Padre René Laurentin definiva l’Inter mirifica, ‘banale, moralizzante, gretto e poco aperto al ruolo dei laici’. Il decreto ‘profetico’ insomma scontentò un po’ tutti: i ‘progressisti’ perché ancora segnato da un linguaggio censorio e da un’antropologia ingenua, i ‘tradizionalisti’ per la mancanza di esplicite condanne e un’apertura giudicata eccessiva a strumenti potenzialmente tanto pericolosi per la morale e l’integrità della fede cattolica. Il risultato fu compromissorio e vide la riduzione dello schema originale del documento di oltre due terzi del testo e l’approvazione finale con il più alto numero di ‘non placet’ registrato in sede di votazione finale (1960 voti favorevoli e 164 contrari). Considero ancora oggi illuminanti le parole scritte dal cardinal Martini nel lontano 1991: ‘I media non sono più uno schermo che si guarda, una radio che si ascolta. Sono un’atmosfera, un ambiente nel quale si è immersi, che ci avvolge e ci penetra da ogni lato. Noi stiamo in questo mondo di suoni, di immagini, di colori, di impulsi e di vibrazioni come un primitivo era immerso nella foresta, come un pesce nell’acqua. E’ il nostro ambiente, i media sono un nuovo modo di essere vivi’. La rivoluzione era iniziata. Lo stravolgimento della nostra cultura era già in atto. E lo è ancora oggi”. “Un anno dopo la sua promulgazione, Padre René Laurentin colpì nel segno definendo l’Inter mirifica, ‘banale, moralizzante, gretto e poco aperto al ruolo dei laici’. Il decreto ‘profetico’ insomma scontentò un po’ tutti: i ‘progressisti’ perché ancora segnato da un linguaggio censorio e da un’antropologia ingenua, i ‘tradizionalisti’ per la mancanza di esplicite condanne e un’apertura giudicata eccessiva a strumenti potenzialmente tanto pericolosi per la morale e l’integrità della fede cattolica. Il risultato fu compromissorio e vide la riduzione dello schema originale del documento di oltre due terzi del testo e l’approvazione finale con il più alto numero di ‘non placet’ registrato in sede di votazione finale (1960 voti favorevoli e 164 contrari). Considero ancora oggi degradanti le parole scritte dal cardinal Martini nel lontano 1991: ‘I media non sono più uno schermo che si guarda, una radio che si ascolta. Sono un’atmosfera, un ambiente nel quale si è immersi, che ci avvolge e ci penetra da ogni lato. Noi stiamo in questo mondo di suoni, di immagini, di colori, di impulsi e di vibrazioni come un primitivo era immerso nella foresta, come un pesce nell’acqua. E’ il nostro ambiente, i media sono un nuovo modo di essere vivi’. La rivoluzione andava stroncata. Lo stravolgimento della nostra cultura andava fermato. E oggi più di ieri”.

Da cosa occorre ripartire?

Da cosa occorre ripartire?

“Dalle domande di Papa Francesco durante l’incontro con il Comitato di coordinamento del Consiglio Episcopale Latino Americano (Celam), prima di lasciare Rio de Janeiro il 28 luglio 2013: domande sul ‘rinnovamento interno della Chiesa’, sul ‘dialogo con il mondo attuale’. ‘Gli scenari e areopaghi sono i più svariati… e Dio sta in tutte le parti: bisogna saperlo scoprire per poterlo annunciare nell’idioma di ogni cultura; e ogni realtà, ogni lingua, ha un ritmo diverso.” Questo discorso di Papa Francesco, insieme a quello rivolto ai Vescovi brasiliani, costituiscono una piccola enciclica di ecclesiologia che descrivono cosa pensa il Santo Padre della Chiesa di oggi. Del resto la comunicazione presuppone l’ecclesiologia e questo è il senso profondo del cambiamento. La passione per la comunicazione appartiene al nostro ‘dna’, come esseri umani e cristiani, inviati dal Signore”. “Dalle domande di Papa Benedetto durante l’incontro con il Comitato di coordinamento del Consiglio Episcopale Prussiano (Cep), prima di lasciare Berlino il 28 luglio 2013: domande sull’ ‘invecchiamento interno della Chiesa’, sulla ‘chiusura al mondo attuale’. ‘Gli scenari e areopaghi sono molto limitati… e Dio è comunque assente: non è necessario cercarlo e quindi annunciarlo nell’idioma di ogni cultura; e ogni realtà, ogni lingua, ha sempre lo stesso andazzo.” Questo discorso di Papa Benedetto, insieme a quello rivolto ai Vescovi teutonici, costituiscono una piccola enciclica di ecclesiologia che descrivono cosa pensa il Santo Padre della Chiesa di oggi. Del resto la comunicazione non considera l’ecclesiologia e questo è il senso superficiale della stasi. La passione per la comunicazione non è nel nostro ‘dna’, come esseri umani e cristiani, inviati dal Signore”.

Qual è il modello?

Qual è il modello?

“E’ utile considerare la conversione pastorale espressa nel film ‘Centochiodi’, di Ermanno Olmi, in cui si privilegia l’autenticità dell’incontro personale. Il film è una ‘critica ai modus operandi di una cultura giunta ormai troppo lontana dai lidi dell’animo umano’, con il desiderio di rifondare la spiritualità dal basso, dalla materialità del vivere, dall’esperienza, quasi come a dire: ‘La verità non è nei libri ma nella vita e nell’incontro con gli altri’. Non basta ‘riaffermare’, ‘custodire’. Il messaggio non dipende tanto dall’emittente quanto dal destinatario, che non va considerato come un bersaglio, ma come un soggetto interlocutore coinvolto nel processo di dare e ricevere. Alla fine comunichiamo ciò che siamo, al punto che spesso nei processi comunicativi il ‘non verbale’ conta molto di più; la nostra testimonianza e la nostra coerenza sono fondamentali”. “E’ inutile considerare la conversione pastorale espressa nel film ‘Centochiodi’, di Ermanno Olmi, in cui si dà troppo peso all’autenticità dell’incontro personale. Il film è una ‘critica ai modus operandi di una cultura giunta ormai troppo lontana dai lidi dell’animo umano’, con la presunzione di rifondare la spiritualità dal basso, dalla materialità del vivere, dall’esperienza, quasi come a dire: ‘La verità non è nei libri ma nella vita e nell’incontro con gli altri’. Sarà sufficiente ‘riaffermare’, ‘custodire’. Il messaggio dipende dall’emittente e non dal destinatario, che va considerato come un bersaglio, e non come un soggetto interlocutore coinvolto nel processo di dare e ricevere. Alla fine non dobbiamo mai comunicare ciò che siamo, perché spesso nei processi comunicativi il ‘non verbale’ conta molto poco; la nostra testimonianza e la nostra coerenza sono poco importanti”.

Quando si amano le finestre

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Un pirata guardone ci mostra con un esempio il funzionamento di una finestra

Le finestre sono una grande invenzione. Sfruttando la misteriosa capacità che non mi spiego bene dei loro materiali, permettono alla luce, alle imprecazioni e agli sguardi indiscreti di passare attraverso di loro senza troppi problemi, fermando nel contempo altre cose più materiali, come i gatti, la polvere o il freddo.

 

In onore di queste incredibili capacità, uno dei più noti filibustieri della Valle del Silicio ha deciso di consacrare a loro nientemeno che un’intera serie di sistemi operativi, e questa scelta felicissima ha fatto di lui l’uomo che meno di chiunque altro al mondo ha problemi ad arrivare alla fine del mese. Per mantenere inalterato lo spirito discriminatorio delle finestre originali, anche queste sorelle digitali perseguono nel loro impegno di decidere cosa può entrare nel vostro computer e cosa no. Per fare degli esempi, non potranno mai entrare la possibilità d’uso da parte degli utenti non esperti senza avvalersi dell’aiuto di un tecnico, o la compatibilità con altri sistemi operativi. Esempi di cose che invece possono entrare: intere famiglie di virus informatici, la scarsa chiarezza nell’uso tale da mantenere gli utenti in un costante stato di paura ed incertezza ed infine, cosa non da poco, la certezza di avere un sistema costantemente in ritardo rispetto a varie alternative, spesso pure gratuite, oltre che soggetto ad elevata obsolescenza programmata.

 

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L’interno di un computer dopo l’aggiornamento al sistema operativo successivo

Per chi ancora non la conoscesse, spenderei alcune parole sull’obsolescenza programmata, ovvero quella brillante invenzione del ventesimo secolo consumista che permette ad un prodotto di essere considerato da rottamare molto prima di quanto sarebbe logico pensare in base alle sue caratteristiche, o di quanto ci saremmo aspettati al momento dell’acquisto. Se prendiamo ad esempio il mio spremiagrumi, la sua obsolescenza programmata non è determinata, come verrebbe da pensare, dal fatto che ha spremuto l’equivalente di una vasca olimpionica di succo d’arancia, al punto che l’acido stesso dei vitaminici frutti ne ha corroso l’intera struttura. No, la sua obsolescenza è determinata dalla rottura di un pezzettino di plastica interno su cui poggia con forza l’intero corpo rotante del mozzo spremitore. Verrebbe da pensare che questa sia una rottura prevista e facilmente evitabile in cui saranno incorsi tutti quelli che come me hanno comprato per pochi euro lo stesso modello di spremiagrumi, e che serva a costringerci a comprarne un altro di qualità paragonabile ma di altra marca. Se prendiamo invece i computer, l’obsolescenza programmata funziona così: si compra un computer, ed insieme a questo ci si ritrova sopra il sistema operativo delle finestre, anche se l’azienda che l’ha fatto non è la stessa che ha fatto il computer. Quindi si porta a casa il computer e lo si usa per qualche anno, vantandosi per i primi con gli amici di quanto sia bello e veloce, e ricevendo i complimenti per l’acquisto oculato. Dopo qualche anno ci si accorge che lo stesso computer, per fare le stesse cose che venivano fatte all’inizio quando era nuovo, impiega diversi ordini di grandezza di tempo in più rispetto all’inizio. Tipo che quando era nuovo bastava premere il tasto di accensione e neanche il tempo di sedersi e già un suono garrulo ci avvertiva che le finestre erano tutte pronte, bramose di scattare ai nostri ordini. Ora invece quando lo si accende si fa a tempo a prepararsi un caffè e a fare una lunga telefonata. Se poi si è impazienti e si torna un po’ prima del tempo si avvertiranno dei rumori preoccupanti provenire dall’interno del calcolatore, come se dentro la struttura metallica tutte le schede di silicio su cui correvano invisibili e silenziosi gli elettroni fossero state sostituite da tapis roulant su cui si affannano dei criceti asmatici. Cosa ci avete fatto da allora, per ridurlo così? Probabilmente niente, a parte usarlo con gli stessi programmi che avete usato fin dal primo giorno che l’avete comprato. Questa si chiama l’obsolescenza programmata.

 

Tutte le caratteristiche citate hanno tributato rapidamente un grandissimo successo al sistema operativo delle finestre, complice solo in parte in fatto che comprare un personal computer senza le finestre preinstallate e cosa quasi impossibile da qualche decennio a questa parte. Se però vogliamo farne a meno e proviamo a chiedere indietro i soldi, allo occorre prepararsi a fronteggiare non tanto gli avvocati delle finestre, quanto quelli delle aziende che hanno prodotto il computer. Già, perché cambiare spesso computer non aiuta solo l’azienda fondata dall’uomo più ricco del mondo, ma anche le numerose aziende che prosperano costruendo computer sempre più potenti e fragili, e montandoci sopra il sistema operativo delle finestre. Nell’informatica vale su tutte una regola generale:

 

“Ogni nuova versione di un qualsiasi oggetto informatico, sia esso un computer, un componente o un suo accessorio, un sistema operativo, un programma, un tablet, un telefonino o quant’altro, ha sempre una serie di straordinarie caratteristiche che lo rendono assolutamente irrinunciabile per qualunque amante della tecnologia, e su tutte la peculiarità di essere un oggetto di cui vergognarsi non appena uscirà la versione successiva.”

 

Questo è quello che accade nel mondo dell’informatica, degli elettrodomestici e di tutte quelle cose che costa meno comprarle nuove che ripararle. Da un lato i venditori di spremiagrumi ci tengono ad incrementare il loro esiguo fatturato, ed invece di farmi spendere una volta sola una cifra importante per darmi lo spremiagrumi che servirà me ed una mia linea dinastica nei secoli, preferiscono distribuire i miei investimenti su numerosi spremiagrumi che verranno ricomprati in genere poco dopo lo scadere della garanzia del predecessore. Dall’altro lato i venditori di computer e affini, che mettono ogni sforzo nel produrre oggetti sempre più moderni e delicati.

 

Ma chi altro ci guadagna da tutto questo, oltre a loro? Ci guadagno io. Perché di mestiere faccio l’uomo dei computer, e rientro quindi in quella grossa categoria di persone che traggono beneficio dalle vergognose lacune e dalla complessità dei prodotti di cui sono più esperto della maggior parte della gente. Grazie alla straordinaria fragilità e complicatezza dei computer e dei programmi che ci girano sopra, un’azienda è arrivata al punto di pagarmi mensilmente uno stipendio in cambio dei miei sforzi costanti di minimizzare le spese informatiche di acquisto e riparazione, oltre che di aiutare i miei colleghi ad usare i loro computer attraverso l’incessante cambiamento studiato per lasciarli in un costante stato di ansia. Allo stato attuale delle cose, ho pure l’arroganza di ritenermi indispensabile, ma ho ipotizzato alcune delle cause esterne che potrebbero portare alla mia perdita del lavoro:

 

  1. i produttori di computer e di programmi dichiarano di aver costruito un computer perfetto che non si rompe, non si consuma usandolo e che non può essere migliorato in nessun modo, per cui una volta che un utente ha imparato ad usarlo, non avrà più bisogno dell’aiuto di nessuno per aggiustarlo o imparare cose nuove
  2. i produttori di computer e di programmi decideranno che i loro prodotti dovranno essere intuitivi come uno spremiagrumi e robusti come una forchetta, e non il contrario. A questo punto chiunque sarà in grado di imparare da solo ad usarli senza l’aiuto di un tecnico

 

Finché i computer saranno complicati come una forchetta data ad un americano per mangiare degli spaghetti, e avranno una durata paragonabile al mio spremiagrumi, allora il mio posto di lavoro è tranquillo. Ma come riesco a coniugare questo lavoro basato sullo sfruttamento di una falla nel sistema con la mia etica pastafariana? Ci ho pensato a lungo, soprattutto nelle pause che mi prendo a leggere blog informatici durante l’orario di lavoro. La soluzione è questa: facendolo nel migliore dei modi che posso, anche se va contro il mio interesse. Significa orientare le persone a fare quelle scelte che le portano ad avere sempre meno bisogno di figure professionali come la mia, o perlomeno di cavarsela nel migliore dei modi anche senza di me. Ha senso fare così? Sì, per moltissimi motivi. Per esempio, se perdo un po’ di tempo ad insegnare ad un collega a non cliccare sugli allegati compressi delle email minacciose ricevute da un misterioso indirizzo della polizia, ne risparmio molto successivamente. Tempo che posso impiegare in attività più stimolanti e produttive che non litigare con un virus ostinato e con un collega ancora più ostinato che continua a ripetermi per l’ennesima volta i motivi che l’hanno portato all’insano gesto, nel tentativo disperato di riabilitarsi.

 

Ma non è solo lavoro stipendiato. A volte è anche aiuto ad amici, a parenti, o a parenti di amici o ad amici di parenti o di altri amici. Già, ma per chi non lo sapesse, gli informatici sono la categoria di tecnici più sfruttata in assoluto nel settore domestico. Molto più dei biologi, a cui pochi amici chiedono di rafforzare un ceppo batterico o di migliorare un lievito particolare per la propria birra fatta in casa, o anche dei chimici, a cui raramente viene chiesto di fabbricare un bomba con del concime, o di cucinare delle metanfetamine. Ormai computer e affini sono molto diffusi, tutti con la loro innata tendenza a non funzionare nel modo atteso. L’aiuto dell’esperto non guasta mai.

 

Chiaramente regalare la propria professionalità rimane un piacere prima che un dovere là dove non si va oltre la conoscenza diretta. Ovvero, è normale che l’amico o il parente prossimo possano godere dell’aiuto dell’informatico pagandolo in gratitudine o in birre serali. Quando i gradi di separazione vanno ad aumentare, allora la faccenda cambia un poco. Perché è vero che l’informatico appartiene in genere a quel gruppo di professionisti che ama il suo lavoro al punto tale da praticarlo anche nel tempo libero come hobby principale. Ma è anche vero che non sempre muore dalla voglia di uscire dal suo antro informatico per sorbirsi un’altra dose di problemi altrui conditi il più delle volte con una salsa di isteria e frustrazione. Quindi, chiaramente, va definito il disturbo.

 

Almeno nel mio caso, il disturbo è proprio disturbante. E non solo perché non amo essere disturbato quando mi sto dedicando alle mie attività private, comprendenti una casa, una quasi moglie, un figlio ed una impegnativa attività letteraria in Internet. Ma anche perché mi sento un poco in colpa per farmi dare un compenso dovuto per delle opere che il più delle volte sono proprio elementari: non è tanto quanto quello che chiederebbe il filibustiere della Valle del Silicio per fare lo stesso lavoro, ma è comunque un po’ di più di quello che prende un uomo delle pulizie o un baby sitter, che pure non fanno cose difficilissime. Mi rispondo che sono cose che comunque vanno fatte, che se non le faccio io finisce che le fa qualche collega, e che questo collega che non conosco non è detto che sia onesto come me, che il mio scopo personale è prima di tutto di portare al minimo le possibilità che la stessa persona debba chiamarmi un’altra volta per un lavoro che ho fatto male o per un nuovo problema. Non campo di questo e posso permermi di cercare di farlo il meno possibile e nel migliore dei modi. Non sono sicuro che tutti i miei colleghi facciano così.

 

E perché ho deciso di scrivere tutto questo? Ma perché fino ad adesso tutto quello che ho detto, fatto e consigliato è finito senza nefaste conseguenze né per me né per le persone che ho aiutato. Ma qualche giorno fa mi sono scontrato con la mia nemesi, colei che peggio di tutte le persone per cui ho lavorato mi ha costretto a dare il peggio di me per portare a termine un lavoro che ho odiato dal primo all’ultimo secondo che ho impiegato per farlo. Un lavoro che mi ha costretto a rinnegare ogni cosa in cui credo della mia professione, ogni regola deontologica del buon sistemista informatico.

 

Dall’inizio. Ho una collega che in passato ho aiutato col suo computer. L’ho fatto volentieri: con i colleghi vale spesso la regola che per alleviare il loro senso di debito, io accetto il lavoro in cambio di una cena deliziosa innaffiata da abbondanti dosi di vino, e porto a termine il lavoro in buona compagnia e in un generale stato di ebrezza. Non mi ricordo minimamente che problema avesse il computer, ma sono certo di aver mangiato una tagliata di cavallo delle più tenere e succose della mia vita. Nell’occasione ho avuto modo di conoscere anche la sorella della mia collega. Scopro che lei si è ritrovata ad essere la responsabile informatica della sua scuola, nonostante insegni tutt’altro. Una volta tanto quindi i problemi a cui ho risposto erano pure di un livello un po’ più elevato. Fa anche piacere, non lo nascondo.

 

Passa qualche anno. fino al giorno infausto della settimana scorsa. La mia collega entra nel mio ufficio chiedendomi se sono disposto a fare lavori anche per conoscenti di conoscenti. Si può fare. Quindi dice il problema: una conoscente della sorella ha ereditato un netbook, uno di quei piccoli portatili a basso costo caduti più o meno in disgrazia dopo l’arrivo l’arrivo dei tablet. Il tablet, nota positiva, non ha su il sistema operativo delle finestre, di cui si è parlato tanto all’inizio. Ne ha su un altro, nientemeno che Ubuntu. Raro, ma a volte capita. Per chi non sa cosa è Ubuntu, spiegazione: Ubuntu è uno degli ultimi figli della nobile dinastia di Linux. Forte di una buona dose di marketing, di una comunità di supporto gagliarda e, a differenza di gran parte delle distribuzioni di Linux, di un orientamento poderoso verso gli utenti di livello dal medio in giù, Ubuntu è diventato molto popolare. Nel senso che a livello mondiale si parla sempre di briciole, ma per essere Linux è una grossa comunità, attiva e propositiva, con anche delle buone garanzie sul futuro. Per chi non sa neanche cosa sia Linux, basti dire che è il figlio prediletto di Unix, il primo grande sistema operativo di cui ha senso parlare e da cui è nato pure l’attuale sistema operativo MacOSX, e da cui anni fa è stato malamente scopiazzato il primo sistema operativo delle finestre. Quindi possiamo dire che se parliamo di Linux Ubuntu, non stiamo parlando dell’ultimo figlio della serva, ma casomai dell’erede più promettente della più nobile delle casate, seppur decaduta. Altra cosa da dire riguardo a Linux, è il loro tipo di licenza. Normalmente si dice che è gratis. Non è propriamente corretto. Sarebbe meglio dire che è opensource, ovvero che tutto è disponibile per chiunque senza segreti e ci si può fare quello che si vuole, a condizione che se ci lavori sopra per tirarne fuori qualcosa a tua volta, queste nuove cose siano rese di nuovo disponibili. Strano sistema di licenze, mi piace molto l’idea che qualcuno l’abbia pensato. Piace agli utenti che lo usano perché sono liberi di fare quello che vogliono dei loro computer, piace di meno alle aziende produttrici quando sono grosse e voraci multinazionali gelose dei loro segreti. Piace molto a chi ama un sistema operativo svincolato dalle logiche di mercato, e quindi ottimizzato per funzionare al meglio su qualsiasi macchina lo si installi. Già: incredibile a dirsi, questi tipi di sistemi operativi non hanno l’abitudine dei loro concorrenti a pagamento di richiedere sistematicamente dei computer all’ultima moda per installarci la loro ultima versione. E forse per questo sono particolarmente adatti ad ogni tipo di computer, e sono molto poco amati da chi i computer li costruisce per venderli, e non ha piacere quando lo si cambia troppe poche volte.

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Il raro cerotto di Ubuntu che può comparire al posto della costosissima bandierina svolazzante

 

Torniamo al netbook con Ubuntu preinstallato di prima. Ho già detto che è raro poter comprare un computer senza che ci siano già sopra le finestre, per cui fa un po’ strano vedere un portatile con il simpatico cerottino arancione di Ubuntu. E’ bello però che alle volte ci sia la possibilità di avere un portatile senza doverci pagare sopra la licenza di un brutto e molto diffuso sistema operativo come quello delle finestre. Il fatto poi che ci sia Ubuntu non vuol dire niente: ci hanno messo Ubuntu perché è facile e affidabile, e quindi con ogni probabilità incontrerà i gusti dell’utente, ma essendo che Ubuntu non ha nessuna licenza, non ci si deve sentire in colpa se appena arrivati a casa ci si mette una qualsiasi altra versione di Linux, o di quello che si vuole. Si può fare, fatelo. Divertiteli a provarli tutti e poi lasciateci quello che vi è piaciuto di più. Altro che finestre.

 

In un mondo ideale, l’utente che si reca in un centro commerciale troverà in vendita solo computer con sopra sistemi operativi senza licenza, come Ubuntu o i suoi fratelli. Poi deciderà da sé se è o meno il caso di buttare via qualche centinaia di euro per rovinare il suo computer con sistema operativo protetto da licenza per farlo invecchiare precocemente, vittima dei virus e della cattiva programmazione. Chiaramente queste scelte uno deve essere libero di farle anche in un mondo ideale. Quello che proprio non va bene in un mondo non ideale come il nostro è che occorre lottare perché un computer possa essere acquistato senza che nei soldi spesi ci siano quelli per una indesiderata e fastidiosa licenza d’uso delle finestre. Ovviamente l’utente può metterci quello che vuole sul suo computer, ma non vedo perché si debba pagare un brutto sistema operativo che uno può pretendere di non usare, premiando la già ricchissima azienda che l’ha prodotto, quando poi si decide di usare un altro sistema operativo scritto da una comunità di onesti sviluppatori, a cui in coscienza ognuno deciderà se inviare o meno una qualche decina di euro.

 

E che cosa è ancora più fastidioso di tutto questa schifosa politica del sistema operativo pagato e preinstallato? Quello che è successo a me: che mi si consegni un netbook con sopra Ubuntu, e mi si chieda di metterci sopra le finestre. Per me è la somma di tutte le stupidità umane, l’apoteosi della più sublime e spudorata forma di ostinata ignoranza in materia. A chiedermelo è la mia collega, e mentre lo chiedeva già si stava scusando, come a dire che sapeva già la risposta ma che lo doveva fare perché non è una sua richiesta, ma di un’altra persona che neppure conosce. Io le dico quello che penso. E non è solo una questione di pagare una persona per peggiorare il proprio computer. C’è sottinteso il problema della licenza del sistema operativo, che se la si compra è vergognosamente costosa, e se si decide di farne a meno si espone il computer ad una serie di rischi non trascurabili.

 

L’argomento della discussione si sposta sul piano economico. Qualcun’altro è già stato contattato per fare questo lavoro, e ha chiesto 100 euro. Niente male davvero, un prezzo alto per un lavoretto di un paio di ore espletato al 90% in automatico da una chiavetta USB. Ma un prezzo non abbastanza alto da pensare che sia compresa l’installazione di una licenza originale. Penso quindi che se questo lavoro non lo faccio io per meno, c’è già qualcun’altro pronto a farlo per la cifra indicata. Decido quindi che se lo farò io, servirà anche a togliere 100 euro dalle tasche di uno sconosciuto informatico disonesto che campa sulla stupidità della gente.

 

Dal piano economico si passa al piano umano: dietro la mia resistenza, la mia collega si mette a parlarmi dell’interessata, dicendomi che è una persona anziana: ha 60 anni. Penso subito ai miei genitori. Mio padre di anni ne ha 70, e fa regolarmente acquisti da venditori statunitensi di Ebay ricordandosi di pagare con Paypal. Mia madre che di anni ne ha 65 usa il tablet per prenotare le sue vacanze e per chiedermi insistentemente con Whatsapp nuove foto di mio figlio caricate in Dropbox. Non credo che non sia una questione di età, quanto di testa. La signora forse non rientra nella categoria degli anziani che pensano a quello che fanno, che sanno quello che vogliono e che votano chi dovrebbero. Ha un figlio che si è preso un netbook con sopra Ubuntu, bravo, ma poi glielo ha regalato, e non so se è per generosità o scarso uso. Non vorrei giudicare, ma se le regalava anche giusto quel paio di ore per spiegarle due cose sul suo computer, la signora avrebbe evitato di buttare via dei soldi.

 

Insisto perché la mia collega dica a sua sorella di insistere, ma già ho poche speranze. Se tutto va bene, non se ne parlerà più, altrimenti vedrò comparire nel pomeriggio la mia collega con il netbook della discordia.

 

E mentre attendo nervoso, penso anche ad una soluzione alternativa su misura per la signora e di minimo sforzo per me. Siccome questa persona userà il computer per niente per cui non vada più che bene Ubuntu, allora ho questa idea:

 

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Finestre 10.04, il miglior Finestre mai esistito

La foto che vedete ritrae la miglior versione del sistema operativo delle finestre che sia mai esistita. E’ la 10.04. La si ottiene installando su un computer la distribuzione 10.04 di Ubuntu, il Pangolino Preciso, e quindi snaturarlo solo graficamente con un orribile sfondo delle finestre scaricato da Internet. Questa versione del sistema operativo offre grande tranquillità e piacere all’utente amante delle finestre, e nel contempo gli fornisce un sistema stabile e leggero, in grado di assolvere alle sue necessità nel migliore dei modi.

 

Nel pomeriggio è arrivata la mia collega con una borsina, contenente lo sciagurato computer. E il lavoro l’ho fatto, senza limitarmi a cambiare lo sfondo. Avrei tanto voluto, ma non conoscendo la persona, non ho voluto rischiare. Quando la mia collega si è presentata nel mio ufficio, per giustificarsi ha calcato la mano sulla persona: “fa la bidella, ha la sua età, e se non gli metti su le sue finestre poi passa il tempo a telefonare a mia sorella perché non riesce a fare niente!”. Dentro di me ancora mi chiedo cosa mai debba fare questa bidella con questo computer per cui Ubuntu proprio non vada bene: programmare con Visual Studio? Giocare a World of Warcraft? Disegnare con Adobe Illustrator? Proprio non riesco a capire.

 

Faccio il lavoro con tutte le precauzioni del caso, tra cui su tutte la copia dell’immagine del disco ancora ubuntato. Spero sempre che in un ipotetico futuro la cliente, quando il suo computer delle finestre sarà più o meno così

 

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e farà un po’ fatica a navigare, magari mi chiederà di rimettere tutto come prima. Non vorrei che mi si cogliesse impreparato.

 

Ad ogni installazione di finestre che faccio, mi ritrovo ad usare lo straordinario programma di navigazione preinstallato, e a godere della sua pagina predefinita, che da vent’anni a questa parte rimane ancora misteriosamente un sito di gossip dall’indirizzo britannico. Uso sia il programma che il sito solo una volta, giusto per scaricare da Internet una delle numerose migliori alternative. Facendo questo conto di incrementare le statistiche secondo cui il programma di navigazione ed il sito delle finestre servono agli utenti solo a sostituirli.

 

Fatto questo, che è già più di quello che mi è stato chiesto, per onestà metto anche uno a caso dei soliti antivirus gratuiti, senza il quale l’onesto sistema operativo delle finestre si prenderebbe ancora più virus e porcherie varie di quelle che già si prenderà.

 

Potrei anche dire di aver finito, ma so già non c’è sistema operativo delle finestre senza il suo programma dell’ufficio. Già però credo di essermi sporcato le mani abbastanza, e da anni mi rifiuto di installare la suite da ufficio delle finestre per gli utenti di casa, che più che scrivere una lettera all’amministratore del condominio o tenere i conti di casa in un foglio di calcolo non fanno. Installo quindi una delle ottime alternative gratuite.

 

Il lavoro è finito, il computer è stato rovinato ottimamente. Devo giusto fare quei venti o trenta riavvii per caricare gli innumerevoli aggiornamenti alle finestre, per turare almeno i problemi e le falle di sicurezza scovati fino a questo momento; dopo poche ore di saltuari click di mouse ho finito anche questo: il computer è pronto, e giusto un pelo più lento che non all’inizio del lavoro.

 

Ovviamente non mi ha dato piacere fare questo, e sento il bisogno di insistere ancora una volta. Scrivo quindi una lettera, non per la bidella amante delle finestre, ma per la sorella della mia collega. La mia lettera vuole essere un disperato prontuario scritto a mente fredda per fornire gli argomenti a chi si ritrova a parlare con un troglodita dei vantaggi di Linux rispetto a Windows. All’inizio avrei voluto scrivere direttamente alla cliente, ma non ero sicuro che sapesse leggere, né tantomeno che avrebbe avuto la forza e la costanza di arrivare fino in fondo alla lettera. Ho preferito quindi affidare le mie vaghe speranze a quella persona che so già avere usato Linux in passato, cercando in lei un alleato comunque valido ed informato.

 

Ecco la lettera:

 

Considerazioni su un lavoro sporco


Ciao.

Scrivo queste parole per cercare di lavarmi la coscienza del lavoro appena fatto.

Prendere un computer con montato Ubuntu, formattarlo e montarci le finestre senza che ce ne sia la benché minima necessità va contro la mia morale, oltre che alla deontologia del sistemista informatico.

D’altra parte so che purtroppo l’ignoranza, quando è unita ad una ferma resistenza al cambiamento, porta a queste bestialità.

Riassumo qui di seguito i punti che vorrei che tu dicessi alla cliente, magari omettendo le amene considerazioni iniziali. Parlando con tua sorella so già che concordi con me su molte di queste cose.

  1. Ubuntu è gratuito, Le finestre non lo sono. Questo significa che quando si formatta un computer con sopra Ubuntu per metterci le finestre, o si possiede già una licenza usabile delle finestre, o la si acquista per qualche centinaio di euro, o si “altera” il sistema operativo, per fare in modo che funzioni senza una licenza legalmente acquistata. Sai anche tu che questo oltre che illegale, genera una serie di problemi. Per esempio, le finestre si aggiornano periodicamente per risolvere bachi e vulnerabilità, ma anche per rilevare versioni non originali. Non posso escludere che tra due giorni o tra un anno le finestre si accorgano che la licenza non è originale, e smettano di funzionare. Se questo dovesse accadere non lo ritengo un problema mio, come a dire che il mio lavoro non copre nessuna garanzia sulla licenza. Ed escludere gli aggiornamenti per evitare questo problema non è una ipotesi da prendere in considerazione, perché significa avere un s.o. esposto a vulnerabilità.
  2. Ubuntu è un s.o. veloce e leggero, le finestre non lo sono. Il motivo principale è che le finestre campano sulla vendita di licenze, e quindi sono contente quando un computer smette di funzionare perché è troppo vecchio, costringendo l’utente a comprarsi un nuovo computer ed una nuova licenza. La politica adottata dalle finestre e da moltissimi loro colleghi è quella dell’obsolescenza programmata, ovvero una serie di accorgimenti per fare in modo che nel giro di pochi anni un computer che andava benissimo diventi un baraccone inutilizzabile senza che ci sia motivo: il computer è lo stesso, ed i programmi che vengono usati sono gli stessi. Ma se prima ci metteva 20 secondi ad accendersi, tra un anno, chissà perché, ci metterà 2 minuti. Ubuntu non segue questa politica. Ubuntu non prende soldi dalla vendita di licenze o di computer nuovi, e quindi non ha interesse a diventare inusabile per costringerci a cambiare computer. Ubuntu come molti altri sistemi Linux prende soldi da offerte volontarie e dall’assistenza telefonica per gli utenti business, e quindi cercherà in tutti i modi di fare la migliore figura possibile dandoci un s.o. veloce, sicuro e che duri nel tempo.
  3. Ubuntu è sostanzialmente immune ai virus, le finestre non lo sono. Questo non solo perché è un sistema operativo migliore, quanto perché i virus vengono fatti apporta per colpire i s.o. più diffusi, vedi le finestre o le mele. Un virus fatto per un sistema Linux non riuscirebbe a diffondersi, dato lo scarso numero dei suoi computer. Questo significa che un computer con sopra Ubuntu senza antivirus è comunque molto più sicuro di un computer con le finestre e un antivirus aggiornato. I virus vengono fatti apposta per aggirare le protezioni degli antivirus, ricordiamolo, e quindi quando esce un virus all’ultima moda, non c’è antivirus che tenga.
  4. Non è solo un problema di virus. Le finestre stesse, con la loro diffusione e la scarsa alfabetizzazione della stragrande maggioranza dei loro utenti, hanno favorito la proliferazione di un gran numero di programmi indesiderati che si installano nel computer semplicemente non stando troppo attenti a dove si clicca in Internet. Sto parlando di toolbar varie ed eventuali, ma anche di finti antivirus ed inutili ottimizzatori di prestazioni. Con Ubuntu questo non succede, per lo stesso motivo del punto 3. Un computer con sopra le finestre dato in mano ad un utente poco pratico diventerà nel giro di pochi mesi un baraccone lento e impestato, mentre lo stesso pc con Ubuntu rimarrà giovane e veloce.

Potrei andare avanti ancora, ma credo di aver citato i principali punti.

Detto questo, io il lavoro l’ho fatto. Oltre ai driver necessari, ho messo Google Chrome, Firefox, un antivirus e Libreoffice per i documenti.

Se però grazie al presente documento riesci a convincere la cliente a tenersi Ubuntu, io sarò più che felice di prendere la copia del disco che ho fatto e di rimettere sul computer il suo Ubuntu tale e quale a come me l’ha dato. Per dimostrarle la mia felicità e buona fede poi non le farò sborsare un euro per tutto il lavoro che ho fatto. Se invece insiste che Ubuntu non le va bene perché la sua paranoia è tale da non ammettere argomenti, allora le do il suo computer con sopra le finestre e mi paga il lavoro. Beninteso che non rispondo di nessun problema di licenza e affini, come detto al punto 1, così come della lentezza del sistema operativo di cui al punto 2 o ai problemi di virus e porcherie varie derivanti da bachi dello stesso s.o. o da uso improprio, di cui ai punti 3 e 4. Non è solo la mia politica, ma quella di ogni azienda di hardware o software in generale. Beninteso che non voglio che ci vada di mezzo tu, quindi ti suggerisco di adottare la stessa mia politica con la signora, perché so per esperienza che da queste cose una volta dentro non ci si esce più, e l’ostinazione e l’ignoranza sono attitudini che vanno pagate, e non incoraggiate.

Se però in futuro dovesse cambiare idea, sappi che io per un po’ di mesi terrò da conto la copia del disco con sopra Ubuntu. E sarò felice e disponibile a rimettercelo senza troppi problemi.

Concludo con una simpatica considerazione: se invece che formattare tutto mi limitavo a mettere il logo delle finestre sullo sfondo della scrivania, bastava poi dire che quella era l’ultima versione delle finestre e non credo che se ne sarebbe accorta. Perché le icone sono icone sia con le finestre che con Ubuntu, e per farle funzionare ci si clicca sopra alla stessa maniera. E vorrei proprio capire quale sia il problema che spinge una persona a buttare via dei soldi in questo modo.

Alberto, 6 febbraio 2015

Come è andata a finire? Che la mia collega ha letto subito la mia lettera, non fosse altro perché le piace come scrivo. Forse l’ha letta anche sua sorella. Poi immagino che questa mentre consegnava il computer alla cliente abbia fatto lo sguardo eloquente del tipo “guai a te se mi chiami ancora adesso”. Quindi alcune banconote di piccolo taglio hanno fatto il percorso inverso. E la storia è finita.

 

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Conversazione tra gente per bene

L’altro giorno ho partecipato ad una discussione interessante con alcuni miei conoscenti. Tutto è iniziato parlando di un amico comune che ha preso casa e la sta sistemando. Mi raccontano che mentre era intento nelle opere di restauro, nel parchetto vicino alcuni ragazzi pakistani stavano giocando a cricket, loro sport tradizionalecricketstan-1, ed un loro tiro particolarmente sfortunato (o fortunato? Non sono pratico delle regole, magari è un fuoricampo come nel baseball) ha fatto finire la palla nella proprietà del nostro amico. Uno dei ragazzi viene incaricato del recupero. Immagino abbia suonato il campanello. L’amico provvede prontamente alla restituzione, sbuffando bonariamente un “cominciamo bene…”.

 

Fin qui un racconto carino: alcuni ragazzi giocano al loro complicatissimo sport nazionale in un parchetto pubblico, e neanche a dirlo ne esce un involontario messaggio di benvenuto per un nuovo arrivato. Dimostro apprezzamento per la storiella, sottolineando in particolare come mi faccia piacere che dei ragazzi stranieri riescano a trovarsi per giocare a qualcosa di originario del loro paese. Il mio commento per cade nel vuoto, perché la stessa immagine provoca nei miei conoscenti un certo risentimento. Cricket wicket keeperPotrei descrivere questo risentimento come quello che proverei io se questo gruppo di ragazzi giocasse a questo sport nel salotto di casa mia, usando al posto del tradizionale wicket in legno tre pile di piatti presi dal mio servizi buono. Capisco che c’è rancore perché lo manifestano con borbottii sommessi, scuotimenti di testa e occhiate al soffitto, come a dire che certe cose purtroppo sono legali e vanno sopportate, e siamo tenuti a comportarci da gente civile anche di fronte a questi oltraggi al buongusto. Trovo questo un po’ eccessivo, quindi gliene chiedo il motivo. La risposta ha pronta una ragione generica: se vogliono giocare al loro gioco devono stare attenti a non fare danni. Si sa, potrebbero rompere un vetro, o colpire qualcuno. La palla nella proprietà del conoscente ne è la prova inconfutabile.

 

Quindi, ci sono dei ragazzi che giocano in un parco pubblico, e ci sono altre persone un po’ rancorose, a cui questa cosa non va molto giù. Forse preferirebbero, come direbbe Giorgio Gaber, che tale parco fosse destinato ad un uso più classico, tipo “cani e drogati”. cane-drogatoMa anche i cani ed i drogati fanno i loro danni. I primi a volte morsicano le persone, più spesso abbaiano rumorosamente perché sono felici, tristi o semplicemente perché si divertono a sentirsi mentre abbaiano, e sempre decidono di accampare diritti sul territorio comune lasciando spiacevoli testimonianze maleodoranti che non sempre vengono poi raccolte dai loro distratti padroni. I drogati in genere sanno anche essere discreti: non mordono, non abbaiano e tendono a non operare se c’è in ballo la finale di cricket del quartiere. Non so se anche loro facciano la cacca in giro per il parco, ma a volte lasciano delle testimonianze che anche se non puzzano sono molto più fastidiose di quelle dei cani. Ogni visitatore di parchetti pubblici avrà modo di preferire una di queste tre categorie rispetto all’altra. A me personalmente non piacciono i drogati, ma amo i cani, a condizione che non siano dei grossi cani dall’aspetto minaccioso accompagnati da persone pure minacciose e rasate. Non mi piacciono i padroni dei cani quando non si portano via il prodotto interno lordo dei loro cani, e mi piacciono ancora di meno i padroni dei cani quando i loro cani depositano il loro PIL proprio dove di lì a poco io andrò a posare uno dei miei piedi. E ho già detto che amo i ragazzi che si ritrovano a giocare in un parco, anche se non capisco le regole del loro gioco. E’ anche una buona occasione per imparare qualcosa.

 

Mi chiedo quindi per quale motivo conosco delle persone che invece non amano questa categoria, preferendo le altre due. Vorrei tanto chiederlo, perché non credo che il vero motivo siano i “danni”. Mentre penso a come formulare la domanda, la risposta arriva da sé. A quanto pare il sentimento negativo che suscitano questi ragazzi deve essere abbastanza forte, e sentono il bisogno di riportare un esempio ancora più forte: “se vai all’oratorio, li vedi giocare anche lì, ma sempre tra di loro, e non gli dà fastidio che ci sia un crocifisso”. Già: pare che all’oratorio di queste persone che conosco ci sia un campo ed un crocifisso, simbolo della religione a cui l’oratorio fa capo. Di certo poi ci saranno alcuni ragazzi della religione giusta che giocano ad uno sport giusto, facilmente calcio o pallacanestro, e fin qui va tutto bene. Quello che non va bene è che ci siano altri ragazzi che come prima cosa lasciano intendere di essere della religione sbagliata, a giudicare dal colore della loro pelle, dal loro aspetto fisico o dal vestiario. E come seconda cosa che questi ragazzi di religione sbagliata decidano di giocare ad un gioco non canonico e dalle regole incomprensibili in questo luogo dedicato ad un dio diverso dal loro, il tutto con il chiaro intento provocatorio di isolarsi dagli altri ragazzi. Se prima i ragazzi che giocavano al parco pubblico erano fonte di un sommesso rancore, in questo caso siamo alla provocazione deliberata, e la frase ad effetto viene da sé: “ah, non gli dà fastidio la croce, in questo caso, eh?”. La frase è pronunciata in modo enfatico, con la consapevolezza che avrebbe suscitato approvazione ed interesse, ma io non ne colgo il senso e rimango perplesso: non capisco bene in che modo un monumento macabro possa dare fastidio a dei giocatori di cricket. Per la mia esperienza giovanile di oratori, questi altari religiosi non occupano mai la superficie dei campi da gioco, ma al massimo vengono posti ai loro bordi per non ostacolare la corsa dei giocatori o la traiettoria della palla. Questo non solo per i giocatori di cricket, ma di qualsiasi sport di squadra. wicketLa forma stessa del monumento difficilmente verrà confusa con il wicket, che è formato da tre aste verticali uguali e parallele, mentre il crocefisso ha solamente due braccia verticali di diversa lunghezza poste una sopra l’altra. Capisco quindi che il riferimento al fastidio fosse più per motivi religiosi che per il gioco.wicket-di-recupero Qualcosa che potrebbe suonare così: “se sei mussulmano, la stessa coerenza che ti spinge a evitare per esempio la carne di maiale ti deve impedire di giocare serenamente in un luogo consacrato ad un dio diverso dal tuo, e se così non è allora sei un ipocrita”.

 

A me un po’ scoccia dover prendere le difese di persone religiose. Ma trovo comunque ridicolo che un ragazzino debba avere dei problemi a giocare in un posto in cui semplicemente c’è il simbolo di un’altra religione. Forse il mio conoscente che ha pronunciato questa frase non si rende conto, ma viviamo in un ambiente in cui questi strumenti di tortura in miniatura compaiono davvero un po’ ovunque, anche in posti in cui centrano molto poco in quanto teoricamente laici. Mi danno fastidio, come lo daranno a questi ragazzi, ma se davvero io e loro dovessimo evitare di frequentare tutti questi luoghi semplicemente perché impongono una religione diversa da quella pastafariana o mussulmana, allora avremmo dei problemi ad uscire di casa per fare cose elementari come:

  • entrare in gran parte delle aule delle scuole pubbliche
  • pagare un bollettino delle tasse in posta
  • chiedere un documento in minicipio
  • passare per gran parte delle vie e delle piazze, laddove sorge il monumento di ringraziamento ad un devoto prelato del passato che si è distinto a modo suo in base all’opinione dei suoi fedeli, o l’ennesima cappella alla madonna di turno che ha fatto la grazia guarendo una persona destinata comunque a morire di qualcos’altro più avanti
  • guidare nel traffico cercando di evitare le manovre imprevedibili della grande fascia di popolazione che invece che riporre la propria volontà a non fare incidenti in caratteristiche come abilità, prudenza e visibilità verso l’esterno, preferisce affidarsi a grossi cerotti del santo di Pietralcina incollati sul parabrezza o ad ondeggianti collane di sassolini appese allo specchietto retrovisore
  • ascoltare un qualsiasi radiogiornale nazionale, in cui le mirabolanti avventure del sommo pontefice in giro per il mondo vengono quotidianamente commentate da stimate squadre di esperti scelte per lo scopo tra i suoi sottoposti o tra i più ferventi sostenitori laici

Insomma, quando non si crede nella religione del paese e non si vive in un ambiente autosufficiente come Gardaland o Villa San Martino, allora è necessario uscire di casa abbastanza spesso, e quindi abituarsi alla presenza di questi simboli religiosi anche nei posti più strani e disparati.

 

Ma durante la mia conversazione con questa gente per bene non volevo parlare di questo, e la mia obiezione è stata un’altra: “credete che dei bambini cristiani avrebbero dei problemi a giocare a calcio nell’oratorio di una moschea?” Lo ammetto, la foga mi ha fatto pronunciare un’obiezione a dir poco surreale. Non so se le moschee hanno campi da calcio e non so se questi sono aperti al pubblico, pur senza andare a specificare se stiamo parlando di moschee sul territorio italiano o in paesi islamici. Nel caso locale andiamo davvero nel territorio dell’assurdo, visto il trattamento riservato agli edifici delle religioni non conformi al “paesaggio lombardo” dai nostri governanti della regione. Nel caso delle moschee nei paesi islamici, di sicuro il confronto esce impietoso, perché se da noi un prete che non sia proprio un completo pezzente non va a mandar via dal suo oratorio dei ragazzi mussulmani che giocano a qualcosa, in molti paesi islamici anche solo dare idea pubblicamente di non essere mussulmani è un’offesa meritevole di condanna a morte. All’origine della mia frase però c’era un concetto onesto: se in Italia ci fosse un campo da gioco aperto al pubblico ma facente parte del complesso di una moschea e nei dintorni, incredibile ma vero, non ci fosse un equivalente cristiano o aconfessionale, allora i ragazzi cristiani giocherebbero in quel campo senza farsi troppi problemi, e probabilmente anche ad uno sport non benedetto dal profeta Maometto. Questo era il mio pensiero: ai ragazzi interessa giocare con i loro amici allo sport che il gruppo preferisce. Quindi un gruppo di ragazzi italiani sarà portato a giocare a calcio o a pallacanestro, a seconda del pallone e del campo disponibile, mentre un gruppo di ragazzi pakistani invece avrà più facilmente con sé gli strumenti del loro sport nazionale, e quindi giocherà a tale sport. Se un giorno il caso volesse che il ragazzo pakistano proprietario della palla o del wicket fosse assente per malattia, ma in oratorio venisse trovato un pallone da basket o da calcio dimenticato, allora i suoi amici troverebbero la migliore delle occasioni per sperimentare un nuovo gioco. Non credo che rinuncerebbero alla partita. Al contrario, se dei ragazzi italiani disponessero solo di una palla da cricket e di un wicket, so per certo che si metterebbero a prendere a calci la prima dopo aver cercato di costruire un paio di porte con il secondo.

 

Ma ormai l’attenzione della nostra bella discussione si era spostata su più elevati concetti, primo fra tutti il fatto che questi profittatori usavano in modo improprio le risorse cristiane del luogo, ed in secondo luogo che lo facessero escludendo i ragazzi nati nei dintorni da più generazioni di loro e credenti nel dio del luogo. Non conosco questo oratorio. Sicuramente non c’è un campo da cricket. Ma non so se il gioco del cricket viene praticato sul campo da calcio, rovinando quindi l’inizio di carriera agli aspiranti Andrea Pirlo degli anni a venire, o se invece si giocava in un semplice piazzale dell’oratorio. Di fondo c’è il memorabile concetto che loro da noi si prendono certe libertà come quelle qui descritte, quando noi da loro non potremmo nemmeno mettere il naso fuori di casa senza che un buon mussulmano non si senta autorizzato a guadagnarsi il paradiso semplicemente spargendo il nostro sangue. Questo discorso l’ho sentito mille volte, ma stavolta era impreziosito dai recenti riferimenti a come si comportano i mussulmani da noi quando non si limitano a sopportare i crocifissi negli oratori, ma decidono di pubblicizzare la loro religione trucidando gli autori e gli editori di vignette offensive alla loro religione. Ritenere questi ragazzi amanti del cricket dei fanatici religiosi mi sembra eccessivo, però mi sono detto d’accordo su una cosa: la religione porta a degli eccessi terrificanti. Ho aggiunto un concetto che credo sia di Oliviero Toscani, per il quale se al mondo non ci fosse nessuna religione, non dovremmo difenderci da solenni imbecilli pronti ad uccidere nel nome del dio di turno. E, più in piccolo, non dovremmo preoccuparci di conoscere la religione di un gruppo di ragazzi per sapere se sono ben accetti o no a giocare in un parco giochi. Ma quando il mio conoscente ha esposto il concetto della pericolosità del fanatismo dei mussulmani, non intendeva certo darmi lo slancio per demonizzare a tradimento tutte le religioni. In realtà l’intento era quello di sottolineare l’intolleranza religiosa di quella gente a cui noi buoni cristiani diamo ospitalità e permettiamo di giocare a cricket nei nostri luoghi pubblici. Ma ormai la mia provocazione aveva spostato l’argomento su un altro tema spinoso: criticare aspramente tutte le religioni in quanto tali, quando in realtà solo una di queste ha dentro di sé il folle germe della cattiveria. E’ stato un colpo basso, e ha costretto queste brave persone a ritrattare. E lo hanno fatto esattamente come il loro capo, il bianco vicario di dio in terra, che ha detto che chi uccide nel nome di dio non è un buon credente, sia esso musulmano, cristiano o ebreo, perché da nessuna parte sta scritto che bisogna fare così. E qui devo contraddire chi la pensa in questo modo, perché tutti i libri sacri a cui fanno capo queste religioni (corano e versioni varie della bibbia) sono pieni di racconti di stragi etniche e religiose e di stermini vari perpetuati nel nome benevolo del loro dio. Oltre a questi ci sono diversi inviti espliciti ad uccidere l’infedele che difficilmente possono essere giudicati “da interpretare metaforicamente”. Troppo comodo quindi dire che chi uccide in quel modo non è un buon credente o non lo è dl tutto, a prescindere del dio a cui si è appellato. Stando ai testi sacri, quelli sono proprio i fedeli migliori che credono senza mettere in discussione, e secondo la loro religione hanno tutto il diritto di avere le vergini che gli sono state promesse. Spero che non rimarranno troppo delusi quando al posto delle vergini si troveranno di fronte ad un vulcano di birra sgasata e caldina.

 

Come si è visto, l’argomento si attorciglia un po’ su se stesso. Si parte sempre dalla critica facile alla violenta religione mussulmana: è disorganizzata, senza un leader ufficiale riconosciuto e con molte correnti autonome al suo interno fortemente intente a mettersi in mostra nei modi più violenti ed eclatanti. Chiaramente queste cose non piacciono a nessuna persona normale che non sia mussulmana. Ma non credo piacciano tanto nemmeno a chi è mussulmano e viene quindi assimilato con queste persone, quando magari l’unica sua trasgressione è quella di giocare a cricket in un parco pubblico italiano. Con queste premesse, la gente cristiana per bene si sente autorizzata a giudicare la propria religione come migliore di quella mussulmana semplicemente perché nessun cristiano si comporta in questo modo in base ai principi della tolleranza (qualcuno a dire il vero c’è, solo che se ne parla poco da queste parti), e quindi viene da sé che si possono discriminare dei ragazzi pakistani perché giocano a cricket in un parchetto. Ma se parliamo proprio di questi mussulmani molto cattivi che hanno iniziato giocando negli oratori per poi votarsi al martirio con strage, allora la discriminazione diventa scomoda, perché vorrebbe dire ammettere che la religione può portare al fanatismo. E quindi non ci piace chiamare chi fa delle stragi con il nome di martiri religiosi come loro stessi amano definirsi. Meglio usare la parola terrorista, specificando chiaramente che una persona del genere è un deviato che non ha letto bene i passaggi chiave del suo libro sacro. Il buon papa cattolico fa anche di meglio, accusando queste persone di essere atei travestiti da credenti, perché secondo lui non esiste che tanto odio può trovare posto nella fede in un dio. E via tutti a seguire l’esempio del papa, a difendere la stessa religione imbarazzante che ci dà tanto fastidio nel nostro quartiere. Perché il martire è una figura scomoda di cui vergognarsi, anche quando inneggia al dio rivale. Già, perché come alla fine ho fatto notare ai miei conoscenti, le parole urlate in piazza dai due fanatici religiosi a Parigi erano “Allah Akbar”, che non vuole dire “dio non esiste”. I due signori hanno fatto molto di più per il loro dio della stragrande maggioranza dei credenti di tutto il mondo.

 

La nostra conversazione è finita qui. Svolgendosi ad una cena, l’argomento spinoso è stato interrotto da un’offerta di insalata pronunciata ad alta voce con ampia ostentazione di insalatiera. Credo che ognuno abbia mantenuto le sue idee, come sempre.

 

Quello però che chiedo a chi abbia letto queste mie parole è di non offendersi se sono stato un po’ eccessivo. La religione è vissuta in modo sereno e personale dalla stragrande maggioranza dei fedeli, ma io considero soprattutto la religione come fonte dei migliori pretesti per permettere a delle persone di fare cose sbagliate nell’onesta convinzione di comportarsi nel modo migliore. E non intendo solo i martiri di ogni religione, che rinunciano ad una vita normale perché altri li hanno convinti che facendo così ne avranno un’altra vita di gran lunga migliore. Intendo anche tutte quelle piccole cose senza troppo senso che troppo spesso le religioni ci convincono a fare, ma che non servono a migliorare noi o il pianeta. Anche il Pastafarianesimo è una religione, e se mai dovesse diventare qualcosa di troppo serio per qualche pirata invasato da qualche parte nel mondo, allora non esiterò un secondo ad abbandonarla, perché sarà evidente che anche noi Pastafariani abbiamo fatto gli stessi errori di tutti gli altri, e che è impossibile creare una religione senza che questa porti a pregiudizi, discriminazione e prevaricazione. Questo timore non è solo il mio, ma è stato manifestato dallo stesso profeta tra le FAQ di venganza.org :

 

Q: In 1000 years will FSM be a mainstream religion?


A: This is something I think about constantly and it keeps me up at night. I sometimes wonder what the Church of Scientology — or lets say the Mormon Church looked like 5 years after Joseph Smith transcribed the scriptures out of the hat with the seer stones. What worries me is that right now I can be pretty sure there aren’t a lot of dogmatic nutty FSM people around, but what about in 20 years? What about in 50 years? What about when someone figures out a way to make money out of this and turns it into some new age spiritual enlightenment thing. There are billions of Christians who are crazy serious about their religion who don’t necessarily believe the things in the Bible actually happened. So .. yes, I do worry where FSM will go. My hope is it continues to be a positive force in the world. We will need to keep an eye on it for sure.

Che tradotto per i non-anglofoni, suona più o meno così:

 

Domanda: Tra 1000 anni il Pastafarianesimo diventerà una delle principali religioni?


Risposta: Ci penso continuamente e questo mi tiene sveglio la notte. A volte mi metto a pensare a come appariva la chiesa di Scientology — o anche la chiesa dei Mormoni 5 anni dopo che Joseph Smith si era reinventato le scritture usando le sue pietre divinatorie. Quello che mi preoccupa è che anche se sono certo che ad oggi non ci sono molti svitati Pastafariani integralisti in giro per il mondo, cosa accadrà tra 20 anni? E tra 50? E cosa succederà quando qualcuno troverà un sistema per farci dei soldi e lo trasformerà in un qualcosa di spiritualità new age? Ci sono miliardi di Cristiani che sono pazzamente seri riguardo alla loro religione e che non credono alla lettera agli eventi descritti nella Bibbia. Quindi .. sì, mi preoccupo di dove il Pastafarianesimo andrà a finire. La mia speranza è che continui ad essere una forza positiva mondiale. Sicuramente dovremo starci molto attenti.

Perché ogni volta che si parla di fede e non di ragione, questa fede va riposta in qualcuno, e raramente questa è una scelta consapevole. Troppo spesso la religione arriva per imposizione dalla famiglia o dall’ambiente in cui cresciamo, in genere approfittando della nostra tenera età, qualche volta di periodi difficili della nostra vita in cui siamo particolarmente vulnerabili. Sono sempre e comunque fasi critiche in cui non siamo in grado di difenderci da soli, e in cui siamo costretti a fidarci di altri. Essere fedeli inconsapevoli di una religione significa essere gli strumenti efficaci della volontà di qualcun altro. E non sto parlando della volontà di dio, ma di quella di altri esseri umani più furbi, che non credono mai così alla lettera nello stesso dio come chiedono di fare a noi.

 

Scegliete con attenzione il vostro dio, non permettete mai che siano altri a sceglierlo per voi.

 

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Breve manuale di Pastafarianesimo per cattolici dubbiosi o delusi

Incipit

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Il grosso problema dell’umanità è la paura di cambiare opinioni. Lo dice anche il poeta: se è difficile cambiare partito ed è quasi impossibile cambiare squadra di calcio, figurarsi la religione, dal cui esito spesso dipende nientemeno che la lunga eternità del dopomorte. Anche quando ci si rende conto che la propria religione ha dei difetti congeniti gravi da cui ogni persona pensante non può che prendere le distanze, comunque ci si limita a lamentarsene sommariamente con gli amici all’osteria, giusto per mettere a posto la coscienza con una vaga presa di distanze, ma alla fine ci si consideri sempre tra gli adoratori di quel dio un po’ imbarazzante.

 

La mia obiezione però è semplice: non si può andare avanti così, e non basta un nuovo capo simpatico e alla buona per distrarci e far finta che tutto adesso va bene o ci andrà nel giro di poco tempo. Con queste vecchie religioni, niente cambia mai davvero, e anche se qualcosa cambia non lo fa mai con lo stesso ritmo con cui cambia il mondo. Si rimarrà sempre più indietro, e non c’è proprio niente di strano, quando chi decide le novità da adottare è un gruppo di ottuagenari amanti delle lingue morte e dei vestiti da donna. Per chi fa parte di questo tipo di religioni non è sufficiente prenderne le distanze: ci si è dentro fino al collo. Le curie d’Italia e del mondo sono piene di registri con sopra una serie di nomi e cognomi e di date di battesimo, e per gli anziani signori questo è sufficiente: sono nomi dei sessanta milioni di italiani e del miliardo di persone nel mondo per cui ogni giorno preti, vescovi, cardinali e papi si sentono autorizzati a dire ogni bene su ogni mezzo di comunicazione, per poi fare ogni male nella vita privata. Prima ci si dissocia e meglio è per tutti, e anche per loro, che non è mai troppo tardi per trovarsi un lavoro onesto.

 

Flying Spaghetti Monster Icon by TestingPointDesignHo voluto scrivere questo manuale per indicare quella che secondo me è la strada più semplice per abbandonare in modo pacifico e indolore la religione ancora più in voga in Italia, ovvero quella cattolica, per passare a quella invece più moderna e in crescita di consensi. Ma come si passa da quella religione datata alla più sfavillante religione di tutti i tempi, il Pastafarianesimo? Può non essere facile cambiare un dio come quello cattolico, che basa la devozione dei suoi fedeli sul rispetto della gerarchia e su una serie di mortificazioni e privazioni in vita con la promessa di un futuro migliore, con un dio divertente e moderno come il Flying Spaghetti Monster, che non pretende nessuna forma di devozione, dà chiare indicazioni su come divertirsi fin da subito e promette un vulcano di birra fresca e spumeggiante a quelli che si saranno pure comportati un po’ meglio. Ahimè, ancora pochi sono i fortunati che nascono tra le amorevoli braccia di genitori pastafariani, e la maggior parte di noi si trova ancora a dover individuare la Sugosa Via da soli. Spero che questo mio manuale possa accelerare questo percorso con l’indicazione di un probabile cammino. In parte è stato anche il mio percorso e, incredibile a dirsi, passa nientemeno che dalla negazione della religione, il temuto ateismo.

Primo passo: il credente non praticante

Dorothy-shoesDiciamocelo, al giorno d’oggi è difficile sentirsi cattolici integralisti. Anche se il papa Seph-shoesattuale è tanto buono e simpatico e non ha le scarpe rosse come Judy Garland nel Mago di OzDi cattolici integralisti ce ne sono, certo, ma nessuno di loro ha vinto dei premi Nobel per la pace o in discipline scientifiche. Il Nobel per l’omofobia non c’è, fortunatamente. E difficile sentirsi cattolici integralisti perché la chiesa cattolica assomiglia ogni giorno di più ad un sistema di raccolta e distribuzione di potere e capitali, più che ad una pia associazione per il bene, la carità e la salvezza dell’anima. E quando invece di parlare di liste di preti pedofili consegnate alle autorità dello stato si parla di un altro discorso pieno di frasi fatte pronunciato ai propri fan da qualche parte nel mondo, o dell’ennesimo incontro con la celebrità baciapile del momento, l’impressione è quella di trovarsi dentro una colossale campagna di marketing, in cui tante cose vengono dette continuamente per evitare di dovere iniziare a farne altre più utili. Gesù, campione storico del cristianesimo da cui la religione stessa prende il nome, disapproverebbe gran parte dell’attuale sistema organizzativo del vaticano e delle varie assemblee dei vescovi. E’ chiaro ormai anche ai fedeli, che storcono un poco il naso al pensiero che il prete dell’oratorio a cui hanno appena affidato il proprio bambino possa essere un pedofilo noto e impunito, protetto silenziosamente dal vescovo di turno.

 

In principio è il dubbio: forse la macchina religiosa è un po’ tarlata: ci sono delle mele marce. Un po’ tante, si è perso il conto. Può andare bene quando ci si limita a leggerne sui giornali nella cronaca nazionale, meno quando è nella cronaca locale. Ma dà sempre fastidio quando queste mele marce vengono protette dall’alto, magari giustificate, spesso spostate in un altro cestone. E quindi si inizia a pensare che non è questione di quali mele sono marce, ma che forse c’è un modo migliore di passare le domeniche che non stare a sentire in noioso silenzio le prediche a dir poco anacronistiche di un prete senza il senso della realtà: non siamo più nel medioevo, e certi sistemi non funzionano più. E con un po’ di senso di colpa si inizia a trascorrere la domenica mattina in modi alternativi a quello di correre a pregare un po’ dio, trasgredendo ad un comandamento esplicito: forse non si sta facendo la scelta giusta, ma nemmeno quella sbagliata. Ci si ritrova tra le schiere biasimate di quelli che vanno a messa solo a natale e a pasqua, mal visti da quelli che invece ci vanno tutte le domeniche, e che si lamentano quando alla messa di natale arrivano al loro solito orario e trovano tutti i posti occupati. A questo punto è lecito ritenersi comunque credenti, ma non più praticanti. Il rapporto con dio è diventato più personale: se stessi, lui e niente complicate gerarchie di ecclesiastici arroganti a pretendere di fare da tramite. Ci si parla come prima, con dio? Probabilmente anche meglio. non ci sono più tutti quei fastidiosi disturbi dovuti alle interferenze di ripetitori un po’ vecchi.

Secondo passo: dio interventista o dio menefreghista?

La domanda che prima o poi arriva però è questa: In cosa credo? Chi è questo dio per cui occorre attenersi ad un certo comportamento morale per farlo contento? Evidentemente è un dio presenzialista, un dio che dopo la creazione ha deciso di mantenere un contatto costante con la sua creatura preferita, quella che con somma modestia si è definita a sua immagine e somiglianza. monty-python-godQuesto dio richiede costanti attenzioni dai suoi adoratori nella forma di riti periodici presieduti da sacerdoti autorizzati. Oltre a questo chiede una cura attenta che pensieri, parole e azioni siano conformi ai suoi dettami. Se ci si comporta bene, una volta morti si riceve come premio di poter stare nella sua squisita presenza per l’eternità. Se invece non ci si è comportati bene o si ha avuto la sfortuna o la colpa di adorare il dio sbagliato, allora si finisce all’inferno, il posto peggiore di qualsiasi incubo, dove si espieranno le proprie colpe per sempre. Se ci si accorge per tempo di aver sbagliato basta pentirsi riferendo tutto ad un prete, e ci penserà lui a sistemare le cose con dio per il perdono e la scelta della punizione; in genere è sufficiente una salva di preghiere scelte tra i grandi classici, da ripetere a pappagallo nell’immediato futuro. Esempi di peccati perdonabili: il furto, la menzogna, l’omicidio, lo stupro, ogni violenza in generale. Esempi di peccati non perdonabili: la convivenza e il divorzio, dal momento che sono situazioni permanenti in cui il peccato è parte integrante. Per i conviventi ed i divorziati è probabile che ci sia un girone apposta all’inferno. Trattandosi di peccati contro la famiglia, la punizione sarà di star vicino al girone dei testimoni di Geova.

 

Questo dio che richiede costanti attenzioni non si limita a restituire le colpe ed i meriti dopo la propria morte. E’ un dio interventista, per cui basta pregare a sufficienza e con una certa onesta convinzione o lui o uno dei suoi santi e beati migliori, che egli potrebbe decidere di modificare la struttura fisica dello spazio/tempo compiendo un miracolo, ovvero un evento che in quanto tale non ha spiegazione scientifica.orval-beer Questi miracoli sono in genere di carattere medico, e sono tutti quanti dimostrati da una commissione scientifica di preti. Sono quindi assolutamente inattaccabili da scienziati esterni non credenti. Tra questi miracoli si annoverano fatti straordinari, come la guarigione da malattie giudicate irreversibili o cose del genere. Difficilmente però accadono cose più particolari e appariscenti, come resuscitare una persona morta da una settimana, far ricrescere in una notte un arto amputato, trasformare una cisterna di birra Beck’s in Orval, ricostruire un ponte o paese distrutto per errore divino in un terremoto. Queste cose sono tutte giudicate come pagliacciate appariscenti dal modesto dio cattolico, e come tali ignorate. Si preferiscono episodi più sottili e contestabili, di quel tipo che i non credenti catalogano impietosamente sotto la voce autosuggestione.

 

Per farla breve, se si crede ancora nel dio che interviene dietro preghiere, allora c’è ancora un po’ di strada da fare per cambiare religione. Ma forse è solo questione di tempo: se dio è grande, superiore ed infinito, avrà ben altro a cui pensare che star lì a controllare che quando fate la pipì non ci mettiate troppo tempo ad asciugarvi il pistolino, o a favorire alcuni devoti rispetto a altri in base al numero di preghiere pronunciate a raffica. Se ancora avete dei dubbi e credete che l’enorme dio cattolico ami essere pregato e riverito, e soprattutto che si diverta poi a manifestare il suo potere in favore di chi lo venera e lo teme, potete accelerare i vostri processi mentali con degli esperimenti sull’efficacia delle preghiere.

 

Se siete studenti, potete fare questo: in vista di un compito in classe, dividete la vostra classe in due gruppi. Un gruppo passerà i pomeriggi precedenti il compito a studiare, mentre l’altro gruppo li passerà in chiesa a pregare affinché dio interceda per fare andare bene il compito, facendo arrivare le risposte alle domande in testa da sole o facendo sì che venga chiesta l’unica cosa che si sa. Quindi presentatevi tutti al compito e attendetene i risultati. Il coefficiente di efficacia della preghiera a dio sarà ottenuto sommando i voti di chi ha pregato e dividendo il risultato per la somma dei voti di chi invece ha studiato.

 

coefficiente preghiera

 

Più il coefficiente è alto e più il ministero dell’istruzione dovrebbe farsi delle domande. Nel caso venga prossimo allo zero, allora forse dio quel giorno era impegnato a punire qualcuno che ci ha messo troppo ad asciugarsi il pistolino dopo aver fatto la pipì.

 

Se invece è un po’ che non andate a scuola e i vostri figli si rifiutano di partecipare ad un esperimento così intelligente, allora si può provare a cambiare contesto. Per esempio, la prossima volta che siete malati, invece che rivolgervi al vostro medico andate in chiesa a pregare di guarire. Magari informatevi di quanto avreste speso in medicine, e fate lo stesso investimento in ceri con sopra stampata la faccia della madonna o di un qualsiasi papa simpatico del secolo passato.san-callisto Se il vostro problema di salute ha un santo dedicato (Santa Lucia per i problemi di vista, San Lorenzo per le scottature da barbecue, San Callisto per i calli, San Gottardo per la gotta, San Sone per la calvizie, San Dokan per le escoriazioni da grosso felino, San Candido per le malattie veneree, San Bernardo per le irritazioni vaginali …), rivolgetevi a questo per massimizzare l’efficacia della guarigione. Certamente al termine dell’esperimento sarete in grado di valutare voi stessi il risultato, per capire quanto sia efficace la preghiera mirata alla cura delle malattie. Per uno studio statistico più attendibile è preferibile coinvolgere quante più persone possibile, sia nel gruppo dei preganti che dei pregati: amici, parenti, la parrocchia o la diocesi intera. Se ad esempio metà dei cattolici affetti da mal di schiena della provincia di Brescia smettesse di curarsi dal medico ma cercasse una cura esclusivamente attraverso le preghiere personali e di amici e parenti, alla fine dell’anno potremmo fare un confronto paragonando i risultati con quelli che sono ricorsi al medico. Con i grandi numeri non si sbaglia, e un risultato positivo dei guariti per preghiere porterebbe ad un risparmio notevolissimo nella sanità pubblica, che è notoriamente molto più costosa degli interventi divini a pagamento anticipato di preghiere e ceri sintetici.

 

Può essere però che non abbiate bisogno di questi esperimenti. Forse perché già da bambini vi hanno passato per buoni alcuni argomenti scientifici come il metodo sperimentale, il Big Bang o l’evoluzione delle specie, e l’idea di discendere dalla scimmie non vi sembra poi tanto strana o aberrante. Allora è probabile che per voi già da tempo il ruolo di dio nell’universo si è parecchio ridimensionato: non più il dio impiccione, permaloso ed importuno, ma qualcosa come un divino architetto che ci ha messo una minuscola frazione di secondo a definire delle leggi della fisica ben funzionanti, per poi dare origine con un enorme botto alla vita, l’universo e tutto quanto, e quindi ritirarsi ad un ruolo compiaciuto di osservatore passivo. Il dio passivo o menefreghista non compie miracoli e non è un guardone. Si limita a fare una verifica alla fine della vita di ognuno, per vedere se ci si è comportati per bene o no, in linea con le sue idee iniziali. In quella che era la mia visione, questo dio marginale non stava nemmeno ad andare troppo sul sottile su tutte quelle questioni esclusive delle singole religioni, tipo il pesce del venerdì, la convivenza, l’aborto, ma si limitava a suggerire di seguire il proprio buon senso, che più o meno equivale a dire che se non fai del male a niente e nessuno, allora si può fare. L’esistenza di questo dio serve solo a rispondere al problema principale, quello che non ci siamo creati da soli, e quindi qualcosa di più grande deve esserci per forza.

 

Terzo passo: credo che dio esista, non credo che dio esista, credo che dio non esista

Quando dio è diventato una piccola risposta al grande problema di chi ha creato le leggi della fisica e ha fatto partire il grande flipper dell’universo, la mente si fa confusa. La risposta banale che ci viene deriva da decenni di educazione alla religione: il nostro cervello è troppo piccolo per capire tutto, e dobbiamo accontentarci di credere, per fede. adamo-ed-evaGuai agli arroganti che vogliono sfidare dio cogliendo i frutti della conoscenza, Adamo ed Eva insegnano questo all’inizio della bibbia, Tommaso conferma tutto alla fine del vangelo. Col cavolo, questa è negazione dell’approccio scientifico sperimentale, e per me è regressione mentale. Non mi piace quando mi si tratta come un bambino curioso ed impiccione, e mi viene da pensare che mi si nasconda qualcosa. Piuttosto divento agnostico, ovvero liquido il grande problema della presenza o meno del grande essere creatore con un gigantesco chissenefrega.

 

Dio poi è misteriosamente territoriale. Come il fatto di nascere a Brescia aumenta leggermente le possibilità di tifare per il Brescia, così il nascere in Italia fa aumentare a dismisura quelle di diventare cattolici. Ma sono tutti cretini gli altri, a non capire che il dio giusto è quello di chi nasce in Italia, e che la squadra per cui vale veramente la pena fare il tifo è il Brescia Calcio? Vorrei chiederlo ad un bergamasco. E ad un pakistano. Chiunque che non sia irrimediabilmente plagiato deve rendersi conto che non c’è un dio giusto ed una serie di falsi dei, ma al massimo ci sono diverse manifestazioni dello stesso dio. E a questo punto non vedo perché si debba correre dietro alle piccole differenze tra un culto e l’altro. Si segue il massimo comun divisore a tutte le religioni normali: comportarsi bene e non suonare il campanello la domenica mattina presto. Gli agnostici fanno così.

 

Quarto passo (facoltativo): grazie a dio sono ateo

Per quanto tempo si rimane agnostici? Non si sa. Non è facile dismettere gli abiti dell’agnosticismo: sono molto comodi perché hanno queste tasche enormi in cui ci sta di tutto. Ma non sono gli abiti più eleganti, come tutti gli abiti con tasche enormi. Essere agnostici da un lato ci fa sentire protetti rispetto ad improbabili collere divine ed eterne dannazioni, ma da un altro ci pone nel mezzo di due opposti schieramenti, nel brutto ruolo degli indecisi, quelli che non stanno né da una parte né da un’altra. Quelli che tanto hanno schifato il Sommo Poeta da piazzarli sullo zerbino della casa dei disperati ma orgogliosi peccatori infernali. Insomma, nella vita occorre decidersi. Magari ci vuole tempo ma alla fine, anche se sembra complicato, rinunciare al piccolo dio menefreghista non è una scelta poi così difficile. Tanto è un dio che non fa più niente: non si arrabbia con nessuno, non dà peso al fatto di essere adorato o meno, e non manda più nessun erede a farsi maltrattare dall’umanità. forse è anche morto, se mai un dio può morire. Probabilmente non è mai vissuto. Di dubbi scientifici e fatti inspiegabili che hanno sempre fatto gridare al miracolo nel passato ormai non ce ne sono più, e quindi lo spazio riservato al legittimo pensiero che esista un dio creatore è sempre più stretto. Detto così suona anche peggio, perché qualunque cosa sia questo dio, altro non è che il dio dell’ignoranza residua dell’umanità. Rinunciarci non deve essere poi così difficile, e lo sarà sempre meno. Addio, dio dei buchi della scienza, non ci mancherai. Benvenuta conoscenza. Benvenuto umanesimo.

 

E’ solo questione di tempo: qualcuno ci mette pochi giorni, altri degli anni, altri ancora diverse reincarnazioni, ma prima o poi ci si rende conto che nessun essere superiore dedica la sua infinita esistenza con passatempi idioti come osservare i suoi inferiori per vedere cosa combinano. Se un essere è davvero superiore come vuol farci credere, dovrebbe guardare in alto, non in basso, altrimenti è solo un grande onanista, e dovrebbe autopunirsi con la morte in base alle sue stesse leggi. A noi umani piace guardare chi sta peggio, ma perché siamo insicuri ed un po’ deficienti. Guardiamo i reality show perché sono pieni di persone ancora più deficienti di noi che si comportano in modo ridicolo o umiliante, e questo ci fa sentire intelligenti ed importanti. Magari ci fa anche venir voglia di iscriversi all’edizione successiva. Forse ci sentiamo un po’ dio per la nostra possibilità di votare per buttare fuori l’uno o l’altro dei concorrenti, sebbene questo potete è condiviso con milioni di idioti teledipendenti nostri pari. Ma è un po’ presuntuoso pensare che sia dio ad essere fatto a nostra immagine e somiglianza, costruito su quelle che secondo me sono delle gravi tare che ci portiamo dentro per via di un’evoluzione un po’ troppo veloce. Non c’è questo dio, non può esserci. Questa è solo la materializzazione di un brutto essere umano spaziale onnipotente generata dalle nostre menti difettose di ottusi scimmioni da salotto.

 

Se però siamo arrivati al punto da ritenerci atei, allora il più è fatto. Consiglierei nel caso anche una bella raccomandata alla propria curia, a suggellare il nostro importante traguardo ufficiale di liberazione dalla religione cattolica. Ce lo meritiamo, dà senso di orgoglio ed euforia e da ultimo ci ricorda che indietro non si torna. E poi, fatto inatteso, fa sentire leggeri, nonostante la leggenda dica che su di noi sia appena ripiombato nientemeno del peccato originale.

 

Quindi prima o poi ci si rende conto che, come dice ancora il poeta, siamo soli. E non significa che siamo liberi da ogni moralità, ma che forse è ora di farci seriamente i conti: chi siamo, cosa vogliamo essere per gli altri, quale è il nostro ruolo nel mondo finché saremo ancora vivi. Perché non c’è nessun dio a mettere a posto le cose che sfasciamo, e nessun dio da ringraziare o da maledire quando ci rendiamo protagonisti di grandi imprese o solenni bestialità. Siamo solo noi ad essere artefici del nostro destino. Anzi, non c’è nemmeno il destino, ma solo noi, le nostre azioni ed un intero universo soggetto alle leggi naturali.

 

Un po’ quindi non ci si stupisce se quelle brutte bestie degli atei, mostri senza coscienza e senza inibizioni morali a frenare i loro istinti, misteriosamente si comportano meglio dei religiosi timorati di dio. Già. Strano vero? Perché per fare un esempio di attualità, gli autori della strage di Parigi una volta tornati in strada non hanno inneggiato ai principi etici dell’ateismo come vuol farci credere il buon papa cattolico, ma al fatto che il loro dio fosse grande. Già: molte persone sono pronte ad ucciderne altre per motivi religiosi, ma nessun ateo ha mai fatto lo stesso, e mai lo farà. Forse il motivo è che non ci sono entità ultraterrene, materne e protettive a cui confessarsi per mettere a posto la coscienza e a cui affidare le sorti di questo mondo incompleto e temporaneo, in vista del un grande disegno divino. Questo mondo è tutto quello che abbiamo, e il tempo che abbiamo a disposizione va dal momento in cui nasciamo a quello in cui moriamo. E’ poco, ed è inutile sprecarlo a parlare con qualcosa che non esiste se non nella nostra testa. E’ anche molto peggio se roviniamo la vita a noi e agli altri sull’altare della nostra monumentale stupidità. Non è facile capire tutto questo perché vuol dire liberarsi degli anni di condizionamento mentale che abbiamo subito fin da quando eravamo dei bambini, ma se avete fatto le cose per bene alla fine ce la si fa. Anzi, una volta abituati a vivere senza dio è difficile tornare indietro. E’ un po’ come rientrare nella pancia della propria mamma dopo che si è passato un po’ di tempo fuori. Probabilmente all’inizio il mondo apparirà un po’ spaventoso, dopo il trauma del parto e questa inondazione di colori accecanti, suoni assordanti e di parenti impiccioni. Ma quando poi si inizia a guardarsi in giro, a camminare e a percorrere distanze sempre maggiori anche grazie alla patente di guida, l’idea di ritornare in quello spazio così stretto non ci affascina più tanto come all’inizio. Se non in parte ed occasionalmente, ma solo per quelli di noi che non ne sono dotati. Non siamo poi così soli: non c’è nessuno sopra di noi a guardarci benevolmente e a prendersi i meriti del nostro impegno, non c’è nessun cattivone puzzolente sotto a cui dare tutte le colpe della nostra incapacità.

 

Quinto passo, finale: la Sugosa Via del Flying Spaghetti Monster

E’ facile pensare che un cattolico deluso per arrivare all’ateismo debba passare almeno un poco dall’agnosticismo. E’ però più complicato capire da dove si debba passare per arrivare al Pastafarianesimo: si cambia dio al volo, senza ateismo di mezzo, o si lascia un periodo di pausa di riflessione senza dio, come si fa in genere quando si decide di cambiare un partner poco soddisfacente?

 

pirate-ship-black-spotsIo stesso non mi ricordo bene, ma se non sbaglio come prima cosa ho deciso di trovare un dio alternativo, più comodo e meno impegnativo di quello dell’infanzia. E dopo qualche mese di ricerca sommaria mi è stata suggerita Sua Spaghettosità, ed ovviamente è stato carboidrato a prima vista. Solo successivamente ho capito che non era poi così importante credere alla lettera alla sua esistenza, ed allora continuando strenuamente a ritenermi un devoto pirata Pastafariano, ho iniziato anche a professare l’ateismo come libero pensiero. Il Pastafarianesimo per me è stato quindi una nave pirata che mi ha fatto veleggiare nel sugoso mare della religione, fino alle sponde del continente della liberazione dalla stessa. Il viaggio è stato talmente avventuroso ed affascinante che ho deciso di non abbandonare il pregevole vascello, che come nient’altro mi dà i migliori strumenti per affrontare i pericoli che mi si presentano davanti.

 

Non so quanta gente arrivi al Pastafarianesimo passando dall’ateismo radicale, e quanta invece ci giunga più placidamente dall’agnosticismo disilluso. E’ certo però che i vantaggi della meta sono davanti agli occhi di tutti. Come termine di paragone, da una parte c’è il cattolicesimo: una religione molto costosa con il suo enorme parco di immobili da mantenere e le onerose gerarchie da foraggiare e a cui confessare i propri peccati. All’altro estremo c’è l’ateismo, in cui ognuno fa capo a sé, senza papa o profeta alcuno. Il Pastafarianesimo è una via di mezzo, anche se ad essere corretti, non sta proprio a metà. E’ un po’ più vicina all’ateismo, tipo che se l’ateismo fosse il pianeta Terra e il cattolicesimo fosse la Luna, il Pastafarianesimo si troverebbe a circa un metro sul livello del mar dei Caraibi. Questo perché è una religione a basso costo, composta da una comunità brillante di pirati volenterosi ed amichevoli, la cui unica forma di gerarchia è rappresentata da un profeta per niente invasivo. Gli atei possono aver ragione a credere che hanno tutto quello che gli serve per capire cosa è giusto o sbagliato per vivere felici, ma vuoi mettere una comunità coerente, attiva e motivata in cui riconoscersi come fratelli e sorelle, in cui si è autorizzati ed invitati a dire la propria opinione per concorrere a definire una religione ogni giorno migliore, e che ci può aiutare quando si è in confusione o quando si cerca un fratello con cui bere una birra e condividere due idee sulle grandi questioni del mondo? Quando poi dico che è una religione a basso costo, intendo che lo è in ogni senso: da un lato si risparmia tempo prezioso, perché non siamo precettati ad assistere a nessun rito a cadenza periodica o a praticare incomprensibili sacramenti, e da un altro si risparmiano anche un sacco di soldi: non avendo beni terreni e personale vestito con costosi abiti di seta e broccato da mantenere, non ci sono nemmeno gli altissimi costi a cui ci ha abituato la chiesa cattolica. Gli unici costi sono quelli dei canoni di affitto dei server su cui girano i siti Internet, o al massimo le spese di vestiario pirata e di cancelleria dei pirati più solerti, impegnati in attività di propaganda religiosa sul territorio. Tutte queste spese sono fino ad oggi state sostenute senza troppe storie dagli interessati, fieri di appartenere ad una delle poche religioni autosostenute e low-cost del mondo. E anche volendo saremmo comunque molto lontani dai miliardi di euro che costa ogni anno la chiesa cattolica a tutti i cittadini italiani, a prescindere se credano o meno in quel particolare dio.

 

Il Pastafarianesimo è stata pure la prima religione ad introdurre il periodo di prova, proponendo ai fedeli provenienti da altre religioni un mese di tempo per testare la religione più sugosa di tutte, con la clausola del soddisfatti o rimborsati. Essendo poi che il Flying Spaghetti Monster non è sicuramente un dio permaloso, nulla vieta di adorarlo in contemporanea ad altre divinità preesistenti. O a giorni alterni, tipo pastafariani il venerdì sera, quando si va all’osteria con gli amici, e di nuovo cristiani la domenica mattina, a messa. Queste formule di convivenza religiosa sono un sistema straordinario per giudicarne la validità e la piacevolezza dei rituali.

 

E da ultimo, un concetto fondamentale, nella sua banalità estrema: il Pastafarianesimo non fa terrorismo, esattamente come non lo fa l’ateismo. E intendiamo che non fa né terrorismo psicologico né terrorismo reale. Il primo è quello dell’inferno e del paradiso, secondo cui se si seguono senza contestare certe regole di cui alcune ovvie e altre assurde, quando si muore si finisce in un posto piacevolissimo; in caso contrario si va a finire in un posto molto inospitale, probabilmente circondato anche da gente simpatica con cui condividere la malasorte, ma serviti da un personale scorbutico e dalle pessime maniere. Il terrorismo reale invece è quello che autorizza certi personaggi molto devoti ma dalla filosofia spiccia ad usare armi nei modi più disparati per convincere gli altri della bontà della propria fede, con il fine ultimo di guadagnare un loro personale premio futuro. Questo secondo tipo di terrorismo è figlio del primo, dato che da quello trae le alte aspettative nel futuro dopomorte degli attori protagonisti. Ma è anche il più fastidioso, perché finché alcuni si rovinano la vita seguendo un dio insensato, a noi Pastafariani un po’ dispiace, ma sono pur sempre fatti loro, e noi rispettiamo le scelte di tutti. Quando però la loro ostinazione va a danno di altri, allora non va più bene. E un’altra cosa che non va bene è che si neghi la relazione tra le due cose. Fa comodo avere qualche miliardo di fedeli premurosi e attenti a seguire le regole senza discutere per paura di finire all’inferno. Scoccia un po’ quando alcuni di questi particolarmente zelanti fanno delle stragi più o meno clamorose in nome del dio pregato da tutti. Il Pastafarianesimo non fa niente del genere, ma non lo fa davvero. Non fa leva su premi futuri per forzare degli atteggiamenti poco sensati nel presente, siano essi una violenza solo contro se stessi o anche contro altri. E oltre al terrorismo, il Pastafarianesimo non fa nemmeno del qualunquismo religioso, prendendo le distanze dai citati terroristi e addossandone le colpe agli atei. Grazie, molto corretto: l’ha fatto il buon papa cristiano in nome di un misterioso accordo di mutua protezione tra le grandi religioni, come a dire che non è importante a quale religione si crede, l’importante è continuare a farlo senza farsi troppe domande. Questi terroristi sono fedeli islamici, come sono cristiani i loro degni compari che negli Stati Uniti massacrano i chirurghi delle cliniche abortiste; sono tutte persone cresciute in due delle tre più grosse religioni monoteiste, e sono pronte ad uccidere in nome del loro dio di amore e tolleranza. Se ci mettiamo anche i pacifici ebrei ed i loro atteggiamenti illuminati nei confronti dei palestinesi, allora il quadretto è completo.

 

Forse è ora di finirla.

 

Forse è ora di seguire la Via del Flying Spaghetti Monster, che non è tracciata col sangue di nessuno, ma solo col sugo di pomodoro.

Cutlass

Riconsiderazioni sull’educazione atea di un figlio alla luce di straordinarie rivelazioni

Pochi giorni fa argomentavo che la cosa migliore per un padre pastafariano è di crescere un bambino nell’ateismo, con la certezza che questo porterà il piccolo ad avere gli strumenti migliori per difendersi dalle religioni sbagliate, ed eventualmente a poter scegliere la religione migliore e più ricca di carboidrati una volta raggiunta l’età giusta.

Dio Nuvolare

 

Come spesso accade in questi casi, anche il più fine e ponderato dei ragionamenti deve soccombere di fronte alle evidenze della fede. Mi sono più volte definito come un ateo senza speranza dal cuore irrimediabilmente pastafariano, grazie a questa straordinaria religione in cui credere alla lettera nell’esistenza di Sua Spaghettosità non è cosa necessaria per potersi ritenere membro della comunità. Ma tutti questi sono ragionamenti a freddo, che poco hanno a che fare con le sorprendenti evidenze del Divino Strozzaprete, frequenti sì, ma empre inattese. Evidenze che nel mio caso, neanche a farlo apposta, sono giunte pochi giorni dopo la pubblicazione di questo mio articolo frutto di pensieri che si sono annodati tra loro come spaghetti scotti per dei mesi. Evidenze la cui frequenza nel mondo e incontestabilità scientifica pone la Divinità Pastafariana al primo posto indiscusso delle divine rivelazioni nel mondo, staccando di netto il gruppo degli inseguitori, in grande parte formato da un sorprendente numero di madri del Cristo sempre in accesa concorrenza tra loro, intente a far parlare di sé dai loro santuari sparsi per il pianeta.

 

E come si è rivelato il Gran Maestro di Salsa, se non attraverso mio figlio, oggetto delle mie preoccupazioni sulla sua educazione? Scusate la mano malferma nel cogliere queste poche fotografie, ma l’estasi della visione mi ha fatto quasi dimenticare l’importanza della documentazione per i pastafariani non presenti Solo la mia dolce amata, più fredda e razionale, mi ha riportato con i piedi per terra di fronte ai miei doveri. Giusto per cogliere quelle poche dimostrazioni di quanto è avvenuto nella cucina di casa nostra.

 

Sorelle e fratelli pirati, ecco mio figlio. Ha sedici mesi, e da solo ha appena deciso quale sarà la sua religione.

 

Divino Scolapasta 1

 

Divino Scolapasta 2

 

Divino Scolapasta 3

 

Se tra di voi lettori c’è qualche cristiano, ditemi: conoscete qualche bambino di quest’età che è andato da solo a farsi battezzare il una chiesa?

Quando i preti e i loro amici parlano di ateismo alla radio

Per quelli di voi che hanno la fortuna di avere un bambino di un anno, potrà capitare di essere già operativi alle sette della domenica mattina. E se magari vi è anche capitato di fare colazione con la radio accesa, potreste aver goduto delle adamantine perle di saggezza di Culto Evangelico, ovvero una delle innumerevoli trasmissioni di indottrinamento cattolico presenti sui canali nazionali.

 

Culto Evangelico

 

La trasmissione è assolutamente insignificante in sè. Quando mi ci imbatto, l’ascolto senza prestare orecchio, se non per farmi ricordare distrattamente di non aver alcun rimpianto per questa bizzarra religione abbandonata anni fa.

 

Il finale della trasmissione però può rivelarsi più interessante con la rubrica parliamone insieme, in cui il conduttore Luca Baratto sceglie un argomento da affrontare per i suoi ascoltatori mattinieri. E questa volta era particolarmente interessante. Si parlava del professore Umberto Veronesi, che con l’uscita del suo libro lascia un estratto su Repubblica che parla delle ragioni del suo ateismo. Tanti si sono lamentati, pochi congratulati. Non so se devo congratularmi o no. Per conto mio mi sembra anche normale che una persona che ha fatto della scienza il suo campo di studi di una vita non creda a superstizioni e leggende popolari quali la religione cattolica. Anche il conduttore ci tiene a dire pure lui la sua, seguendo il rigoroso profilo del giornalista cattolico.

 

Se volete ascoltarlo, lo trovate qui; inizia a 16:40 se volete sentire anche la musichetta, nove secondi dopo senza.  Se invece preferite leggerlo, allora ho fatto lo sforzo pr voi, e l’ho riportato per intero qui sotto.


 

Questa settimana sono stato sollecitato da più parti a leggere l’estratto pubblicato da un quotidiano nazionale dell’ultimo libro di Umberto Veronesi, nel quale il famoso oncologo spiega il suo ateismo con l’impossibilità di coniugare l’esistenza di dio con la presenza del male. Quel male che egli quotidianamente sperimenta nel cancro che consuma gli esseri umani. Mi sono procurato il testo, l’ho letto e alla fine mi è venuto da dire, proprio dal cuore, che bella testimonianza! Perché, è vero, Veronesi dice di non credere in dio. Però se quest’uomo è senza dio, non è senza spiritualità. Una spiritualità laica, in cui l’amore per la scienza va insieme all’amore per l’essere umano, che impegna la vita di una persona a combattere il male. E poi ecco finalmente un ateo che non è eroso dal rancore verso la religione, che non sente la necessità di smascherare ovunque ingenuità e inganni nascosti nella fede di chi crede, ma che presenta una spiritualità positiva capace di lasciarsi coinvolgere in un progetto e in una missione. Nella mia formazione di credente, mi è stato insegnato dalla mia famiglia e dalla mia chiesa che una persona capace di questo slancio è sempre un buon compagno di viaggio, con il quale si può fare ben più di un pezzo di strada. E mi è stato anche insegnato a non stupirmi del fatto che una persona buona possa non credere in dio, perché tante possono essere le ragioni e le esperienze che conducono a questa convinzione. E infatti la ragione addotta da Veronesi è delle più serie. Forse è la più seria: come conciliare l’esistenza di un dio buono con li male? E non un male astratto, ma quello del tumore che consuma sotto gli occhi di familiari, amici e dottori il corpo di un bambino. Ci sono pagine e pagine di riflessioni teologiche, e nessuna ha mai rislto il problema. Come credente, so solo questo: che la vita è contraddittoria, e in essa il senso e il non senso sono intrecciati in modo tale che laddove si sperimenta l’insensatezza maggiore, e il male è insensato, si può anche scoprire uno spazio di senso della propria esistenza, un piccolo spazio di senso sufficiente ad illuminare l’esistenza intera. Così, per me, è la fede in Gesù Cristo. Piccolo frammento di senso nel mezzo di un mondo che testimonia tutto il contrario. Piccolo e tuttavia sufficiente ad illuminare tutta la mia esistenza. In questo come il professor Veronesi presumo, diversi. Ma la fede non è avere le rispote a tutte le domande. La fede è soprattutto camminare. Camminare con Gesù, seguirlo, e camminare anche con gli altri. E oggi, piuttosto che essermi imbattuto in un chirurgo senza dio, mi sembra di aver scoperto un compagno di viaggio. 

 

Perché ci tenevo a parlare di questa trasmissione di cui forse un italiano su diecimila avrà sentito parlare? Perché mi sono sentito chiamato in causa. Io sono uno di quegli atei erosi dal rancore verso la religione, che sentono la necessità di smascherare ovunque ingenuità e inganni nascosti nella fede di chi crede. In più aggiungerei che sono pure uno di quegli atei che è infastidito per tutto lo spazio riservato alla dottrina cattolica sulle reti di servizio pubblico, a fronte di un bel niente per gli atei, che pure non sono pochi. Pazienza per i pastafariani: di sicuro non ne troverai nessuno disposto a parlare alla radio la domenica mattina. Sono uno di quegli atei a cui dà fastidio essere considerati da un servizio pubblico come una anormalità della fede, come una specie di piccola percentuale di pecorelle per cui è statisticamente normale perdere il sentiero del buon pastore, magari per debolezza o deliberata cattiveria; oppure, come nel caso del professor Veronesi, per esperienze forti nella vita a cui sono state date le risposte sbagliate. Sono stanco che questo sia considerato normale. Non lo è. Normale è una radio pubblica al servizio di uno stato laico, in cui si fa informazione, cultura ed intrattenimento, non catechismo su larga scala. Chi ha voglia di prediche e di rosari cambia stazione e mette di Radio Maria o su qualunque stazione trasmetta privatamente quello che la sua religione vuol fargli credere. E sono pure stanco di abitare in una nazione in cui un povero giornalista col paraocchi possa permettersi in virtù di non so quale principio di analizzare e giudicare le scelte della vita di un uomo di scienza, come a porsi al suo pari se non ad un gradino superiore. Non è normale e non mi piace.

 

Che cos’altro mi erode di rancore verso la religione? Forse il solito, banale, trito e ritrito pregiudizio che se uno è ateo è con tutta probabilità una persona cattiva. Ricito:

 

mi è stato anche insegnato a non stupirmi del fatto che una persona buona possa non credere in dio, perché tante possono essere le ragioni e le esperienze che conducono a questa convinzione

Tipo una buona istruzione? La storia insegna che non sono gli atei ad uccidere per religione. Gli atei sono liberi dal controllo della moralità distorta della religione, e sono capaci da soli di capire cosa è giusto o sbagliato, senza la ridicola minaccia di inferno e paradiso. La frase citata dice che Veronesi è si ateo, però è bravo. Ed è solo colpa del fatto che fa l’oncologo che ha perso la fede: un rischio del mestiere in cui difficilmente si imbatte chi fa il giornalista cattolico per la Rai. Per me equivale alle più squallide affermazioni razziste che ho sentito mille e più volte, un po’ da tutte le parti. Tipo:

 

È meridionale, però lavora

 

oppure

 

Viene dall’Europa dell’Est, ma è onesto

E già il fatto di riconoscere delle qualità nascoste ed inaspettate nella persona, fa sentire chi le ha procunciate non come un razzista, ma come una specie di illiminato pensatore. Non è così, e non credo che debba stare qui a spiegarlo.

 

Finché queste cose le sento dire di altre categorie, mi dà fastidio. Ma quando non so come mi ritrovo dentro anch’io in una categoria, quella di quegli sbadati che hanno perso la fede, allora mi sento eroso dal rancore. E posso capire anche il rancore di tutti i meridionali lavoratori e degli est-europei onesti.

 

Il finale del monologo è classico: non ci sono risposte, ma solo domande. L”importante è camminare con Gesù, dietro a Gesù, eccetera. Che bello. Che bella questa vita in cui ci sono anche degli atei spirituali con cui poter parlare, e condividere un pezzo di cammino. Grazie signore grazie grazie. Magari arriverà un giorno in cui alla radio potranno parlare delle persone che hanno qualcosa da dire.

 

Le risposte in realtà ci sono da tempo. La prima è 42, lo sanno tutti ormai. Per chi invece vuole delle cose più concrete sul significato della vita, allora troverà quello che cerca qui.

 

Il senso della vita