Un paio di anni fa, alla stessa festa, ho mangiato nel giro di due sere una delle pietanze più sorprendenti, ed uno dei panini più terrificanti. La cosa pazzesca è che provenivano dalla stessa cucina, per mano probabilmente dello stesso cuoco. Un cuoco vegano.
Cosa c’era di diverso tra il primo piatto ed il secondo? Erano due categorie completamente differenti. Il piatto buono era sostanzialmente un’insalata. Il piatto cattivo era un panino alla plastica.
L’insalata era ricca e fantasiosa, piena di ingredienti affascinanti alla vista e gustosi al palato. Ogni boccone mi faceva sentire un povero ignorante che ha sempre considerato la caprese col tonno come l’insalata più buona che si potesse mai fare.
Il panino invece era qualcosa di imbarazzante e senza senso, a partire dal nome stesso. In realtà tutti i panini avevano dei nomi senza senso. Se la regola per le insalate nel menù era di elencarne gli ingredienti, per i panini doveva essere sufficiente un aggettivo: panino gustoso, panino ricco, panino creativo. Non mi ricordo bene che panino ho scelto, ma sono sicuro che io ed il mio compare abbiamo preso due tipi di panino diversi per trovarci poi nel piatto lo stesso panino, di un terzo tipo. Perché gli altri erano finiti. Già che ci sono, specifico che se abbiamo optato per dei panini accompagnati da aggettivi sospetti, era perché anche tutti gli altri piatti erano finiti. Questi panini non erano la versione fast food dell’insalata del giorno prima, ma già dall’aspetto facevano capire di voler essere un’imitazione povera ma pretenziosa di un hamburger in chiave vegana. Quello che penso ancora prima di infilarlo in bocca per iniziare a morderlo, è che la dieta vegana vuole battere quella carnivora dove la seconda è più forte. Quando lo mordo inizio a credere che questo tentativo sia un suicidio.
Già: non sono più sicuro che questo non-panino dall’aggettivo simpatico sia commestibile. Mentre mi sforzo di triturarne il contenuto con i miei allenati denti da carnivoro, ho il tempo di farmi una domanda:
perché gli hamburger classici sono così buoni?
Perché siano essi presi in una nota catena americana, che in un piccolo bar di paese, in autostrada o dal doner kebab in stazione, seguono tutti le regole sacre del panino, descritte magistralmente nel quinto libro della trilogia più spaziale di tutti i tempi. I panini fatti come si deve contengono, in ordine di importanza:
- uno strato di animale morto più o meno trattato
- una salsa ricavata in genere dai fluidi di un animale vivo o da un embrione
- delle verdure
Cosa accade se al posto del primo ingrediente ci metto, ad esempio, uno strato di cartone compresso, e al posto della salsa una sua versione a base di acqua e soia? Ricavo un oggetto che si fa fatica a chiamare cibo, e di cui il cliente vegano è il primo a starci alla larga.
E allora, mentre mi sforzavo di ingoiare questo delirio a strati, il mio pensiero andava nostalgico alla insalata del giorno prima, bella d’aspetto e deliziosa in bocca, tra il dolce della salsa, l’amaro dei semini di sesamo, e la trasgressione untuosa della fetta di torta di ceci come companatico. Perché un cuoco che è in grado di prepararmi un piatto così buono, deve tentare di uccidermi il giorno dopo? E’ la vendetta del vegano nei confronti di noi consumatori di risorse e generatori di crudeltà?
Ho dormito per alcuni mesi con questo mistero. Poi la mia amata si è iscritta ad un breve corso di cucina vegana organizzato nel circolo di alcune mie amiche. Ogni sera che tornava estasiata i suoi racconti erano per me un’esperienza unica. Apprendevo dell’esistenza di pietanze ricavate da non-animali affascinanti e misteriosi come ad esempio il non-vitello non-tonnato. Per prepararlo è necessario prima impararela ricetta della non-maionese. Attenzione che il non-uovo non impazzisca, mi viene subito da dire. Sembra che gran parte delle pietanze della cucina vegana siano delle imitazioni di qualcosa che in natura c’è già, ma con il difetto di avere almeno un ingrediente di origine animale. Come a dire che basta impegnarsi un po’, e noi vegani vi facciamo tutto quanto uguale, dalla non-carbonara al non-ragù alla bolognese, dal non-coniglio alla non-cacciatora al non-spiedo con i non-uccellini alla non-bresciana. Un tripudio di negazioni per la più nobile delle cause della cucina moderna.
Ai corsi segue una cena vegana, stesso posto, stessi cuochi. La mia metà partecipa con alcune amiche curiose. Io non posso partecipare, perché con le amiche si fanno discorsi da donne. Colgo l’occasione per bermi qualche birra (vegana, chiaramente) con un amico nel bar del circolo. Quando ormai hanno servito la torta ed in cucina stanno rassettando, colgo l’occasione per intrufolarmi a salutare le mie amiche, ma soprattutto per una chiacchierata con uno dei cuochi vegani. Neanche a dirlo, era uno di quelli della festa con l’insalata divina e il panino della morte.
Questo cuoco non è un omone grosso e pericoloso alla Long John Silver, ma un ragazzo normale che fa catering vegani con la sua ragazza. Non è nemmeno anemico, magrolino o verdastro come in genere vengono dipinti i vegani da quei carnivori che li disprezzano dall’alto della loro più suberba ignoranza. Mi è sembrato subito una persona ben disposta e ragionevole, e questo ha reso ben disposto e ragionevole anche me.
Mentre mangiavo a sbafo una buona fetta di veg-torta al veg-cioccolato, scoprendo che al posto delle uova spesso si usano le banane come ingrediente incollante, ho occasione di fargli i complimenti per le insalate vegane. Ne avevo mangiata una sola cucinata da un vegano in vita mia, ma questo non vuol dire che non mi sentivo abbastanza esperto rispetto al resto dell’umanità, al punto di potergli dire che era buonissima! Quindi, una volta che ho fatto capire che sono sì un carnivoro, ma curioso e ben disposto, posso dirgli cosa mi affligge nella vita:
“ma i vostri panini al copertone, perché?”
Credo di averlo punto nel vivo. E’ chiaro che quella sera, una volta a casa, lui stesso non avrebbe aperto il frigorifero alla ricerca di una fetta di suola di Converse affumicata con cui imbottirsi un sandwich veloce. E lo ammette: quegli strati misteriosi e resistenti alla masticazione che occupano lo strato centrale dei loro panini altro non sono che un’imitazione ricavata dagli amidi (mi sembra di ricordare) per invogliare i non-vegani a provare la cucina vegana. Quindi, come fino ad allora mi rifiutavo di pensare, sono proprio degli strati di qualcosa di derivazione industriale che si preoccupa di imitare l’aspetto, la consistenza ed il sapore del prosciutto e degli affettati in genere. Fallendo su tutti i fronti nel più miserevole dei modi. Forse è un po’ che i vegani non mangiano un panino con la bresaola e non conservano un ricordo valido, ma quella cosa che c’era nel mio panino era veramente preoccupante. Dall’aspetto ho pensato volesse imitare la bresaola, se non altro per via del colore rosso violaceo uniforme, ma una volta in bocca il pensiero è andato più ad una grossa fetta di pongo e vinavil cotta al sole.
Faccio notare al cuoco quello quello che per me che lui sa già: “pensate che ad un carnivoro possa piacere una così misera imitazione di una delle cose che gli piacciono di più in assoluto come i panini con gli affettati?” ma non serve la risposta, che in ogni caso non arriva: le rispettive donne ci riportano ai nostri doveri, ed ognuno torna a casa sua.
L’estate seguente la festa vegana si sposta dal mio paesotto alla città: il posto è meno suggestivo ma ci si sta meglio, e ci sta una cambusa più ampia: il rischio che ti portino il panino sbagliato è minore. Ci vado con lo stesso amico dell’anno prima e con il mio primogenito, nato nel frattempo. Dal menù saltiamo a piè pari la sezione dei panini, per scegliere due gustose insalate vegane condite accompagnate da due altrettanto gustose birre artigianali. Dal momento che gli alcolici di regola sono vegani, sarò sempre ben disposto verso queste feste del cibo bestia-free. E anche qui ne usciamo più che contenti. Lo stesso pirata da passeggino apprezza le pietanze a tutto tondo, al punto che alla fine lascia pure indietro lo yogurt, e tocca finirlo a me. E per la prima volta in vita mia faccio la figura del vegetariano, ma nessuno ci dà peso.
Passano i mesi, e in un centro commerciale della città apre nientemeno che un fast food vegano. E’ di un franchising che risponde al nome di Universo Vegano. Dobbiamo mangiare prima del cinema, e passiamo a vedere cosa propone. E, accidenti a loro, mi ritrovo a precipitare di nuovo nei miei incubi a base di veg-imitazioni di carne e affini. Il menù l’ho preso, ma poi mi dava fastidio e l’ho buttato via. Fortunatamente qualcuno più bravo di me ne ha fatto alcune scansioni qui, che riporto.
E mi chiedo, ma funziona davvero allora questa roba? C’è davvero qualche carnivoro che si converte al veganesimo a colpi di veg-formaggio e prosciutto artificiale? Possibile che sia così difficile fare un menù in cui non ci sia almeno una pagina priva di qualche ingrediente simil-carnivoro per cercare invece di esplorare le meravigliose possibilità di una ricca dieta a base di vegetali?
A quanto pare sì, è molto difficile. Meglio proporre autentiche veg-prelibatezze a base di non-ingredienti quali:
- il tonno vegetale (dove vive? Viene pescato negli orti più incontaminati usando dei veg-grissini come arpione?)
- il salame vegetale bio
- il würstel vegetale, probabilmente chiamato così perché ottenuto tritando molto finemente gli scarti di altre lavorazioni vegetali
- il kebab vegetale, o vebab: immagino si tratti di una torre rotante di verdure miste progressivamente arrostite e tagliate. Questo, lo ammetto, sembra interessante.
- il prosciutto veg, con tutta probabilità il copertone violaceo che mi sono ritrovato nel piatto un paio di anni fa. L’unico prosciutto che non va a male se lo si lascia fuori dal frigo per dei mesi.
- la frittata vegetale, ovvero la frittata senza uova. non si faceva prima a dire che è una torta fatta con gli ingredienti che contiene? (es: torta di ceci, torta di soia…)
- il filetto di lupino, che anche se la parola filetto fa pensare che sia ricavato da piccoli lupi, con ogni probabilità è fatto in realtà con i famigerati legumi dei Malavoglia.
Tutto quanto con la chiara intenzione di battere i carnivori proprio là dove sono imbattibili.
Quante sono le insalate proposte in questo ricco veg-menu? Una, un unico degno elemento di una categoria fatta apposta, che riposta quindi il nome al singolare: INSALATA. Come si chiama quest’insalata solitaria? Ma ovviamente Vegan Salad. Cosa c’è dentro? Il meglio che si può offrire ad un carnivoro in disintossicazione; tra le varie cose, tonno veg, formaggio veg e, ovviamente, l’immancabile soia.
Quella sera un’insalata me la sarei mangiata volentieri. Forse ho sbagliato, ma alla fine mi sono ritrovato a mangiare un non-veg-hamburger da un’altra parte, fatto di autentico animale morto. Con i fast food vegani se ne riparlerà quando avranno capito un po’ di cose.