Vittoria nella categoria pastafariana alla Nairobi Marathon 2012!

Alle 6 della notte mi suona la sveglia. Ha piovuto tutta la notte e fuori fa pure freddo. Sarò anche in Africa ma a Nairobi di sole africano neanche l’ombra stamattina. Mi vesto a strati: mutande, calzoncini e pantaloni della tuta sotto. Canottiera, maglietta, felpa e kway sopra. Immancabile la cuffia. Le mie borse sotto gli occhi raccontano cosa significhi avere degli obblighi coniugali da assolvere ed avere due figli. Alle 6.30 ho appuntamento con il boda-boda (moto taxi) per andare allo stadio ma chiaramente mi tira pacco. Prendo un taxi e il taxista mi racconta la sua serata alcolica della sera precedente. Arrivo allo stadio e son mezzo ciucco per la fiatella del taxista, son già stufo, ho le gambe indolenzite e vorrei tornare sotto le coperte.

 

Io alle 6.30 del mattino!

 

Mi svesto e mi metto in fila con altre 8000 persone per partire per la mezza maratona. La partenza è sempre un problema nelle maratone kenyane. Nel senso che davanti a tutti ci stanno gli atleti veri che competono per la vittoria finale seguiti dai più panzoni, dai rugbisti e da un sacco di indiani che manco in centro a Mumbai ne trovi cosi tanti alle 7 di mattina.


 

Gli altri 7999 alla partenza

 

Quando inizia la corsa in realtà si cammina per almeno 1 Km. Nei primi 6 Km si continua a superare gente poi la gara si stabilizza. Ci son i kenyani panzuti che corrono ai 100 all’ora per 1 Km e poi iniziano ad arrancare con la lingua che fa attrito con l’asfalto. Poi ci sono gli indiani che parton sempre per primi e che inizian a camminare dopo 3 Km. Superarli non è facile sia perché son sempre in ingombranti gruppetti famigliari di 45 persone sia perché l’odore delle spezie che si portano in giro come corredo genetico sconsiglierebbe anche solo di avvicinarsi. Verso i 5 Km si può recuperare per strada anche qualche bianco sovrappeso o fuori allenamento che non pensava che 5 Km potessero essere cosi lunghi. Gli unici che mi superano son kenyani che dovevano partecipare alla gare elite ma che son arrivati tardi e cercano, senza alcuna speranza, di riportarsi sui primi. I personaggi folkloristici non mancano: il rastafariano che corre bevendo la Redbull, la ragazzina con i collant, un tipo con una cuffia – copricapo alquanto strana di lana pesantissimo che gli arriva fino a metà schiena, ecc…
Il mio obiettivo oggi è quello di divulgare la sugosa novella pastafariana lungo i 21,30 Km della mezza maratona di Nairobi. Per fare questo ho deciso d’indossare la new edition delle maglie pastafariane con pesce pirata davanti e la scritta 100% pastafariano dietro. Le maglie son in vendita a prezzo modico su ordinazione, contattateci! In testa invece indosso uno scolapasta, utilissimo grazie ai suoi fori per far traspirare la testa eliminando il sudore superfluo. Peraltro quando mi buttavo dell’acqua in testa lo scolapasta provvedeva a far arrivare l’acqua in tutte le aree della mia testa. Con lo stesso copricapo ho peraltro scolato la pasta a pranzo. Quindi il mio copricapo religioso è stato anche estremamente utile.

 

Il fissaggio dello scolapasta

 

 Correndo verso la vittoria

 

L’altro obiettivo dichiarato era l’arrivare correndo sull’arrivo e cercare di raggiungere il podio nella categoria “pastafariana”, introdotta da quest’anno nella Nairobi Marathon. La concorrenza è stata fortissima, una competizione vera. C’eran frotte di pirati pastafariani che arrivavano da ogni dove armati di coltelli e bandane, ho deciso di fare una gara di testa ma non è stato facile. Un aneddoto divertente è stato quando un filibustiere kenyano con una benda sull’occhio è entrato in gara al Km 10. Gli ho chiesto: “Ma tu partecipi alla mezza maratona?”. Risposta: “Si ma son arrivato in ritardo e inizio ora”. Lui mi ha dato parecchio filo da torcere ma sua spaghettosità mi ha sospinto con le sue pappardellose appendici facendomi andare oltre i miei limiti. Ebbene si alla fine ho vinto la gara pastafariana e anche le immagini possono certificare che son stato premiato ricevendo una medaglia d’oro.  Ringrazio la sezione Pastafariana gussaghese che ha creduto in me e dedico a loro questa medaglia d’oro.

Premiazione con medaglia d’oro e ragazza immagine

 

Interviste di rito con bibita dello sponsor

 

Giovani e sorridenti pulzelle, aspiranti pastafariane, s’intrattengono con il vincitore

 

Il mio orologio supersonico mi ha detto che ho consumato 2564 calorie, praticamente ieri ho vissuto da malnutrito. Ho quindi passato il pomeriggio a recuperare energie e a ringraziare il Flying Spaghetti Monster bevendo il suo sacro nettare.

Il post gara (foto d’archivio)

 

Pare che una collaborazione tra Karibu Afrika e Pastafariani gussaghesi sia possibile per l’organizzazione di un viaggio con la partecipazione di un gruppo di persone alla prossima maratona di Nairobi 2013. Appena avremo informazioni in merito vi manderemo un messaggio in una bottiglia sperando che vi arrivi.

Ricette Pastafariane.. o forse no

Lavorando in un istituto alberghiero, sono continuamente a contatto con cuochi indaffarati e creativi, che si danno un gran da fare a perpetrare i segreti della buona cucina e perchè no, a volte ad inventarne degli altri, spinti dal più sano spirito di innovazione, che in quel campo come in tanti altri, può decisamente far la differenza! Col passare degli anni, mi sono reso conto in prima persona (anche se quanto dirò è abbastanza ovvio) che è sempre più difficile stare al passo con la concorrenza, e le idee non finiscono mai di stupire! Direi, che dopo aver letto questo articolo ripreso dal blog “risposte cristiane”,  converrete anche voi che la mia decisione di evitare il dolce quando sono a cena da amici cristiani, è del tutto giustificata. Vedere un crocifisso appeso sopra la porta della cucina di un ristorante, da questo momento mi fa un certo effetto… Arrrgghhh

http://rispostecristiane.blogspot.it/2012/10/una-ricetta-per-amore-di-gesu.html

christian recipes for dummies

Il colonialismo della Chiesa cattolica belga

Buongiorno a tutti,

 

per chi si fosse perso le puntate precedenti siam in Rwanda e Burundi, anno diciamo 1919. Il Belgio inizia a governare questi due piccoli ed inutili Paesi Africani. Il Belgio possedeva solo un’altra colonia, il Congo belga, grande peraltro 80 volte il Belgio stesso. Una commissione ufficiale del governo belga nel 1919 disse, con un certo orgoglio, che da quando Stanley aveva gettato le basi per lo stato del Congo (1885) la popolazione era dimezzata. In Rwanda e Burundi accadrà più o meno lo stesso…

 

Il tipo di colonizzazione che si svilupperà in questi Paesi avrà un impronta  fortemente cattolica, la chiesa più ancora del governo belga sarà responsabile dell’amministrazione del Paese. Nel 1925 l’amministrazione belga, ispirata al principio del divide et impera, intraprende la modernizzazione delle strutture gerarchiche rwandesi. Semplificando alcuni rapporti di potere che sembravano loro inutilmente complicati (i Tutsi sono una razza di capi. Perché dunque dovrebbero esserci capi Hutu, dal momento che la loro razza li predispone a essere comandati?), i responsabili belgi scuoteranno profondamente i delicati equilibri della società rwandese. Da ora in poi, i capi Hutu saranno progressivamente destituiti. Nel 1930 si firma l’accordo tra la Chiesa e il Belgio con il quale la Chiesa acquisisce piena responsabilità scolastica; furono chiuse le scuole statali. La Chiesa mise una prova d’ingresso per l’entrata nelle scuole, una cosa semplice: si doveva essere Tutsi, gli unici a cui potevano andare i posti rilevanti dell’amministrazione (belga). Con la scuola si “etnicizzarono” le élite locali. Nel 1931 in Rwanda il mwami Yuhi V è deposto dai belgi, in seguito alle pressioni del vicario apostolico Monsignor Classe ed è sostituito al trono dal suo catecumenico figliolo Rudahigwa (che regnerà sotto il nome di Mutara III). Da questo momento la Chiesa avrà il predominio anche sulle scelte del governo belga.

Nello stesso anno ci sarà l’introduzione della cosiddetta “carta d’identità etnica”, forse una delle 10 cose più stupide inventate dall’uomo negli ultimi due secoli. In maniera assolutamente inequivocabile e scientifica si distinguono gli Hutu dai Tutsi:


Hai almeno 10 mucche? Tutsi.

Hai il naso largo? Hutu.

Vai a scuola? Tutsi.

Tette grosse e sedere rotondo? Hutu.

Sei ricco? Tutsi.

Tuo padre e’ Hutu? Hutu.

 

L’etnia sarà inventata e istituzionalizzata, Rwanda e Burundi furono ufficialmente etnicizzati nel 1931. Si assisterà peraltro a due fenomeni divertenti: la dehutuizzazione e la detutsizazzione… termini inventati che rappresentano la facile mobilità sociale da un etnia all’altra.

 

Forse giusto fare un flash-forward (un flash back al contrario per i profani)… nel 1994 durante il più famoso dei genocidi rwandesi ai posti di blocco veniva chiesto di mostrare la carta d’identità. Hutu? Salvo. Tutsi? Morto. Misto? Nel dubbio, morto.

 

Nel 1943 si assiste ad un importante svolta: c’è il battesimo del mwami Mutara III e dei suoi capi e sottocapi, tre anni dopo il Paese è consacrato a Cristo Re.

 

Tutto sembra molto tranquillo con i belgi che istruiscono il 10% del Paese e tengono in scacco il restante 90%. Poi succede qualcosa: io mi immagino un prete, un amministratore e un commerciante belgi seduti a tavola ciucchi di birre trappiste e con un gruppo di “Olgettine negrette” a far loro compagnia. Il prete dice all’amministratore: “Cristo, ma lo sai che da qualche mese il tasso di crescita dei cattolici è diminuito?”. L’amministratore: “Ti credo vi ostinate a volere solo Tutsi. Dovremmo cambiare la tendenza”. Il commerciante: “E’ tutta una questione di marketing, dobbiamo convertire tutti gli Hutu, dobbiamo sostenere gli Hutu”. Detto e fatto. Le autorità del Belgio che si erano sempre appoggiate all’aristocrazia Tutsi per amministrare il Paese operano un’inversione di tendenza (direi un’inversione a U): d’ora in poi l’autorità belga sosterrà la “rivoluzione sociale” degli intellettuali Hutu (che reputano più facilmente manovrabili) contro le élites Tutsi.

 

In Rwanda nel 1957 viene pubblicato un documento di dodici pagine dal titolo “Note sull’aspetto sociale del problema razziale indigeno nel Rwanda”, più semplicemente il Manifesto dei Bahutu”. Questo manifesto, redatto dagli “evoluti” Hutu con l’aiuto dei Padri Bianchi, dimostra fino a che punto le élites Hutu, nella loro contemplazione dei problemi socio-politici del Rwanda, abbiano integrato gli schemi razziali importati dagli europei. I Tutsi sono presentati come individui di “razza” diversa. Il PARMEHUTU, il partito di Grégoire Kayibanda, firmatario di questo manifesto e futuro Presidente della Repubblica, spiegherà poi che i Tutsi che lo avessero desiderato sarebbero potuti rimanere in Rwanda, ma senza avere più diritti degli altri stranieri. Verrà sviluppata la teoria del “colonialismo a due fasi”. La prima sarebbe quella dei Tutsi sugli Hutu e la seconda sarebbe quella dei belgi sui rwandesi in generale. Nel testo si comprende bene come la seconda fase del colonialismo abbia in realtà salvato il paese. “Senza gli Europei noi saremmo stati condannati ad uno sfruttamento disumano e, tra i due mali bisogna scegliere il minore”, cioè il colonialismo europeo, “un colonialismo progressista e buono rispetto alla supremazia razziale dei nilotici (i Tutsi)”.

 

In continuità con il Manifesto dei Bahutu c’è lettera di Quaresima del 1959 di Monsignor Perraudin (successore di Monsignor Classe): “…Constatiamo, in primo luogo, che realmente esistono in Rwanda diverse razze abbastanza nettamente caratterizzate (…) Nel nostro Rwanda, le differenze e le diseguaglianze sociali sono, per la maggior parte dei casi, legate alle differenze di razza”. Tra il 1957 e il 1961 si ha la rivoluzione sociale e politica rwandese sostenuta dalla Chiesa. Nel novembre 1959 inizia la cacciata di migliaia di Tutsi. Il regime al potere subì una fine rapida e violenta, morirono 10.000 Tutsi e 170.000 “scelsero” l’esilio. Saranno queste le prime prove di genocidio in Rwanda.

 

 Piedone L’africano

 

PS. C’è un interessante dato che mi piace citare, ossia il numero di burundesi convertiti al cattolicesimo: nel 1910 sono solo 1.000, nel 1922 sono 15.000, nel 1937 sono 250.000, nel 1947 sono 550.000, nel 1968 sono 1.800.000, nel 1976 sono 2.300.000, nel 1986 sono 2.800.000, nel 2004 sono 4.400.000…un gran bel lavoro di evangelizzazione non c’è che dire.

Tiramisù pastafarian-piratesco all’ananas

Alcune parole, poi la ricetta

Antica tradizione piratesca è quella dell’ospitalità: quando si invita non si chiede niente, e se l’ospite insiste gli si propone la componente alcolica o il dolce. Quando si viene invitati si insiste per la classica ‘bussata coi piedi’: non sia mai che un pirata varca la soglia dell’abitazione di un compagno di scorribande per un invito, senza che le mani siano colme di libagioni!

Questa la premessa. Insomma: io e la mia amata veniamo invitati a cena da una coppia di amici. Già al telefono mi propongo per una ricetta nuova di cui mi ha parlato con grande entusiasmo un’altra coppia di amici. Lei come artefice, lui come consumatore. Sto parlando del classico tiramisù all’ananas.


Ricetta che non ho mai avuto il piacere né di fare né di mangiare. Ma proviamo.

Non volevo però disturbare colei che mi ha portato al’attenzione la ricetta: ha avuto una bimba ieri, e facilmente avrà altro da fare che non dettarmi una ricetta al telefono. Ebbene sì: anche noi rozzi bucanieri non siamo immuni da rare delicatezze. Gliela chiederò domani, in ogni caso: passeremo a trovarla, lei e a bimba.

E allora si va nell’oceano internettiano e si seguono le istruzioni. Supermercato per il mascarpone, la panna, l’ananas e la birra (l’ultima non è per la ricetta, è per l’ispirazione del cuoco). Il resto degli ingredienti è già in cambusa che aspetta il suo destino. Rompi, sbatti, mescola, stratifica e disponi. Ed ecco! Appare Colui Che Tutto Dispone Con Spaghettosa Asimmetria! La mia mano, che d’ora in poi non potrò più lavare se non nella birra benedetta, è stata inconsapevolmente guidata nella disposizione dell’ultimo strato di ananas verso l’ennesima dimostrazione della Sua Divina Esistenza!

Grande il mio stupore, ma conoscendo la nota abitudine del Signore del Carboidrato ad apparire nei momenti più impensabili, porto sempre con me una macchina fotografica carica. E con questa ho immortalato la Sacra Apparizione, affinché l’apparizione non serva solo a me, già devoto seguace, ma anche a tutti quelli che ancora hanno bisogno di vedere per credere. Qui di seguito la ricetta, perché anche voi possiate fare questo in memoria di Lui.

Ingredienti!

1) Uno scatolotto di mascarpone, di quelli da mezzo chilo.

2) Un bel po’ di ananas a fette sciroppato. Magari anche più di una latta.

3) Uova. Facciamo cinque.

4) Zucchero di canna, che è più salutare di quell’altro che viene sbiancato con il dentifricio avanzato nei tubetti che buttate nella spazzatura. Non è che siccome siamo pirati dobbiamo per forza farci del male ogni volta. Dai.

5) I noti biscotti usati per il tiramisù che non si dovrebbe dire la marca ma che di fatto si chiamano così perché li fa solo una marca, di cui sono anche il diminutivo. Se non l’avete ancora capito copiate questa roba bianca compresa qui di seguito tra i due trattini

Pavesini! Ci voleva tanto!?

e incollatela da un’altra parte, tipo nel blocco note del vostro computer. Apparirà magicamente il nome del prodotto, come quando si usa l’inchiostro simpatico per le mappe del tesoro.

6) Panna liquida. Non dico quanta ne serve, perché in ogni caso verrà buttata via tutta, visto che immancabilmente sbattendola si autoscompone in una cosa viscida e sbavosa, totalmente inservibile. Se siete più astuti di me, potreste anche pensare di fare direttamente a meno di prenderla.

Procedimento!

Prendiamo dall’antello il robot col braccio che monta. Dobbiamo montarci la panna e i tuorli delle uova, quindi iniziamo dalla panna, visto che è bianca ed è più facile che sia lei a sporcarsi di tuorlo che non i tuorli a sporcarsi di panna. Vai con la frullata! Distraiamoci un attimo ed iniziamo a rompere un paio di uova, facendo attenzione a separare i tuorli dagli albumi. Dopo due uova ci giriamo per accorgerci che la panna, da cosa liquida e di aspetto decoroso che era, si è duplicata in una serie di grumetti bianchicci e in un liquido di brutto aspetto. Ecco: è da buttare. Cerchiamo di buttare tutto nel lavandino, ma questa Cosa ha già via propria e non vuole andarci, nel buco del lavandino. Preferisce propagarsi sui fornelli e sul piano di lavoro, o più semplicemente ignorare la forza di gravità e rimanere aggrappata al contenitore o risalire la propria mano esasperata, per cercare di infilarsi sotto la maglietta. Se proviamo ad usare una spugna, questa diventerà rapidamente complice della Cosa, e propagherà minuscole colonie di Cosa in tutti i posti in cui cercherò di usarla.

Dopo una strenua battaglia a colpi di rotoloni di carta, si riesce a spostare le ambizioni espansionistiche della Cosa verso il cestino dello sporco. Riconquistando la fiducia della spugna, ormai liberata, riusciamo a riprendere il controllo della cucina.

Ci si chiede a questo punto come si può rimpiazzare la panna nella ricetta. Andiamo al mercato a prendere una sola altra confezione di panna liquida? No dai. Ma ci viene in mente che avevamo giusto da parte gli albumi delle uova, perché il bravo cuoco pirata delle uova butta via solo i gusci. E a volte nemmeno quelli. Chissà. Riprendiamo la ricetta.

Finiamo di separare i bianchi dai rossi. Poi facciamo coi bianchi quello che abbiamo tentato di fare prima con la panna mutante. Stavolta non succede niente di imprevisto: gli albumi da opachi traslucidi diventano bianchi e spumosi. Bello: questa variazione mi affascina sempre, quando non cerca di uccidermi.

Spostiamo la spumosità in un altro posto, diamo una pulita sommaria al contenitore del robot e ci mettiamo i tuorli con un po’ di zucchero di canna, tipo cinque o sei cucchiai. E via a mescolare di nuovo. E dopo un po’ ci buttiamo dentro il mascarpone, un po’ alla volta. Qui non aumenta di volume, ma diventa bello cremoso, di un giallo tenue anche invitante. Potete anche assaggiarlo, se volete, così magari vi regolate con lo zucchero. Se invece provate ad assaggiare gli albumi montati, potrete apprezzare il sapore più inutile della cucina, insieme ad una consistenza decisamente fastidiosa. D’altra parte, non ha nemmeno molto senso assaggiare un composto che composto non è, dato che è fatto solo di un ingrediente. Meglio assaggiare la crema giallina fatta di tuorli e mascarpone, che dovrebbe avere un sapore più decente. Se non è così, credo sia meglio che la buttiate e ne facciate un’altra da capo.

Quando la crema di mascarpone è bella omogenea, tiratela fuori dal contenitore del robot e mettetela in una bella ciotola capiente. Poi un po’ alla volta ci buttate sopra a palettate un po’ di albumi montati, mescolando con la celebre e misteriosa mossa “dalll’alto verso il basso”. Ovvero prendendo palettate di crema gialla e buttandola delicatamente sopra alla roba spumosa bianca. E poi mescolando. E via così finché non ci sono più una spuma bianca e una crea giallina, ma solamente una crema, di un giallo ancora più chiaro.

Finalmente possiamo impossessarci del barattolo di ananas. Evitiamo magari di appoggiarlo sul piano di lavoro: considerate che queste latte, data la loro leggendaria impermeabilità a tutto e tutti, spesso e volentieri prima di arrivare nella vostra cambusa stanno in posti non dei più puliti. Quindi meglio tenerle lontane da tutto il resto. L’avete appoggiato già appoggiato nella crema?  Pazienza.

Aprite il nefasto barattolo. Non buttare via lo sciroppo che ci serve. Mettete lo sciroppo da una parte e le fette da un’altra, o lasciatele nel barattolo.

Vai ora con i biscotti Pavesini. Li passiamo al volo nello sciroppo dell’ananas e via nel contenitore che abbiamo scelto per presentare il nostro tiramisù. Li disponiamo in modo da coprire la maggior superficie possibile.

Poi un bello strato di ananas, fatto a pezzettini piccoli. Quindi vai con la malta gialla che abbiamo fatto prima.

E ancora: biscotti, ananas a pezzettini e crema gialla. Ad libitum, o almeno finché uno dei tre ingredienti non viene a mancare, o il tiramisù non raggiunge altezze inquietanti. Ricordatevi solo di tenere un po’ di fette di ananas per la decorazione superficiale, altrimenti i vostri commensali non avrebbero indizi per capire che quello che hanno di fronte è un tiramisù all’ananas e non una pirofila piena di una sostanza semisolida gialla.

E a questo punto, se avete fatto tutto come si deve, anche voi avrete composto la Sua Mirabile Immagine sulla superficie del dolce! Passate nella pellicola il contenitore e infilatelo in frigo per qualche ora, a benedire con la Sua Meravigliosa Presenza gli altri ingredienti.

Gustate freddo.

La regola della terza C

Le puntate precedenti ci hanno insegnato il significato di etnie in Rwanda e come la chiesa cattolica abbia costruito e modellato a livello teorico e nel tempo il concetto di razza camita a suo uso e consumo. Oggi vedremo invece come i colonizzatori entrano in Rwanda. Oggi parliamo dei crucchi.

Rwanda-e-BurundiFoto piratata da qui

I colonizzatori sono stati scarsamente interessati al Rwanda e al gemello Burundi per la loro posizione al centro dell’Africa e per il sottosuolo povero. Rwanda e Burundi vissero, fino a metà 1800, ignorando l’esistenza di altre razze di colore diverso. Non furono toccati dal dramma dello schiavismo e della deportazione in America. Solo nel 1858 ci fu il passaggio dei primi esploratori: Burton e Speke.


Nel 1871 poi, sulle rive del Lago Tanganyika, l’esploratore Stanley vede un vecchio bianco. Lo saluta. “Doctor Livingstone, I presume?”. “Yes” risponde il vecchio con un sorriso amabile, sollevando un poco il cappello. Vanno a fare un giro in barca, e si bevono il te delle 5 sulle rive burundesi del lago.

Stanley e Livingstone

Stanley e Livingstone, The Illustrated London News, 1872 (grazie Wiki)

Nel 1875 malgrado i commercianti arabi avessero provato a dissuaderlo, Stanley tenta una incursione in Rwanda. Lo accolgono con le frecce, e batte in ritirata. I primi quattro missionari dei Padri Bianchi entrano in Burundi nel 1879.

Il 1985 è un anno importante perché si svolge la Conferenza di Berlino, le potenze europee si ritrovarono con i loro capi di stato, esploratori, geografi e missionari per spartirsi la “torta africana”… per la cronaca nessun africano partecipò alla conferenza. L’Inghilterra, la Francia e Leopoldo II (re del Belgio) divennero proprietari della maggior parte dell’Africa. Germania, Portogallo, Spagna e Italia tapparono i buchi. Uno di questi buchi erano il Rwanda e il Burundi che furono affidati alla Germania di Bismark.

Un certo Barman (un nome un programma), dottore austriaco, risalì il fiume del Burundi Nilo-Kager, vera prima sorgente del grande Nilo e fu il primo ad attraversare il Burundi. Il 26 novembre 1885 un decreto imperiale tedesco dichiarò proprietà del Reich “tutte le terre non abitate dagli autoctoni”… La cosa divertente è che nessun autoctono ne seppe niente e cosa ancor più divertente è che in Rwanda e Burundi mica sapevano cosa volesse dire la parola autoctono! Il dominio coloniale che viene loro imposto era tardivo ed arrivava in una società intatta che non aveva mai visto, se non di rado, il passaggio di esploratori, missionari bianchi o commercianti. Anche i tedeschi non si interessarono troppo del loro possedimento coloniale: i primi europei visitarono il paese tra il 1892 e il 1894. Il momento più memorabile del colonialismo tedesco in Rwanda si ebbe quando il conte Von Gotzen presentò uno spettacolo di tiro con la carabina alla corte del mwami Kigeri IV Rwabugiri; un successo assicurato. Dal 1895 e un po’ contro voglia i tedeschi cominciano lentamente a insediarsi in Rwanda e in Burundi. Nel 1899 Yuhi V riconosce il protettorato tedesco.

Il conte Gustav Adolf von Götzen con baffi e patacche (grazie di nuovo, Wiki)

La colonizzazione in Africa generalmente sarà resa possibile grazie allo studio a tavolino della cosiddetta “regola della terza C” (si ricorda peraltro anche un telefilm):

La prima C sta per CRISTIANI: se un missionario europeo arrivava da così lontano per cercare di redimere degli africani qualcosa alla base ci doveva essere. Perché gli africani non sono andati in Europa? Da ciò si evince che sicuramente la religione europea era notevolmente migliore e per questo gli africani non poterono che accettarla. Viene fatta tabula rasa di tutte le tradizioni, se il dio dell’europeo è migliore anche l’europeo è meglio dell’africano. Il metodo dei missionari seguì il teorema di “africano = bambino = sacco vuoto da riempire”, prima però il sacco era stato svuotato per bene! L’africano non sapeva niente, non pensava a niente per cui doveva ragionare come il missionario altrimenti sarebbe finito all’inferno.

La seconda C sta per COMMERCIO: ogni missionario tornava a casa, incontrava gli amici e portava con se in Africa almeno una persona, un uomo d’affari diciamo, così che potesse gestire meglio i commerci. Quando hai già accettato la mia religione a quel punto per forza ti devi rendere conto di come sono più elegante rispetto a te, quanto sono più profumato di te? Una persona viene a battezzarsi e tu gli regali una maglia nuova, il giorno dopo qualcun altro arriverà per il battesimo finché avere la maglia non sarà una necessità. Il missionario capisce che pensare alla religione e ai business è dura per cui torna un’altra volta a casa e porta con se la terza C.

La terza C sta per COLONIZZATORI o amministratori: queste persone saranno incaricate di amministrare tutta la macchina colonizzatrice e di coordinare il lavoro dei missionari e dei commercianti.

Il 1906 è un anno importante per Rwanda e Burundi perché mercato, religione e amministrazione saranno effettivamente tutti nelle mani della Chiesa e dei suoi collaboratori. I problemi però rimangono e gli autoctoni non si vogliono proprio convertire al cattolicesimo (nel 1910 in Burundi solo 1.000 persone si sono convertite). Finita la seconda guerra mondiale nel 1919 il mandato per il Rwanda-Burundi è affidato al Belgio che s’interesserà in maniera più forte e decisa ai due Paesi.

Alla prossima

Piedone l’Africano

La tradizionale giornata dell’amicizia tra i pastafariani gussaghesi e Karibu Afrika

L’arrivo dell’autunno, con il suo alternarsi di spaghettosi raggi solari e di piogge amide, mi fa correre il pensiero ai trascorsi ultimi giorni d’estate, ed in particolare alla domenica di settembre che ogni anno conferma il forte gemellaggio tra i pastafariani gussaghesi e la Onlus di Karibu Afrika. L’occasione di tale ricorrenza è sempre una nota fiera di paese. Di quelle fiere importanti che richiamano gente del settore un po’ da tutte le parti, e che procurano agli abitanti del paese un tacito orgoglio. Insieme al fastidio di una gran confusione di traffico di macchine e gente per tutte le strade, per una fiera di cui a loro del paese non gliene può fregare di meno.


Detto questo, può sembrare strano che nel corso di tutti questi anni nessuno tra pastafariani e volontari di Karibu accorsi sia mai entrato una volta in questa fiera. E questo non tanto per l’argomento venatorio proposto, non proprio apprezzatissimo né da noi pacifici pirati pastafariani né tantomeno dai volontari di Karibu, le cui ricorrenti visite al continente africano non sono certo per collaudare delle modernissime armi addosso agli animali della savana. Il motivo è anche semplice: la propizia occasione di incontro è quella per la gestione dei vari parcheggi della fiera. Quindi non tanto visitare la fiera per comprare un gilet milletasche mimetico o una trombetta che fa il verso dell’anatra, quanto aiutare gruppi di maschietti con una strampalata passione fallica per i fucili a posteggiare i loro mezzi nei nostri parcheggi, dietro l’ovvia richiesta di una quanto più generosa offerta.

 Il parcheggio dell’amicizia karibupastafariana. Sulla sinistra mezzo pirata parcheggiatore, sullo sfondo un vulcano di birra (inattivo da sempre: è di birra riserva)

 

Per antica tradizione la fiera viene svolta di domenica. Questo per conciliarsi meglio con gli umori mattutini di Sua Divina Sugosità: sovente di sabato dopo le serate alcoliche della sera precedente il Signore della Pasta tende a dimenticarsi di benedire le feste pastafariane con un clima propizio. Lavorando noi di domenica, abbiamo la garanzia di una giornata scaldata fin dalle prime ore del mattino da un sole vigoroso, ma pure accarezzati dalla piacevole aria generata dal movimento amorevole delle Sue Spaghettose Appendici. A conseguenza di ciò, la FIA si è accorta di questa sistematica domenica settembrina particolarmente calda e propizia, e ha deciso di organizzare il gran premio di Monza in perfetta concomitanza con la nostra fiera.

Quelle però che i signori a Monza non possono assolutamente avere sono le vampate alcoliche della vicina distilleria, in piena produzione di una delle più celebri grappe bianche italiane. Anche qui, per Suo Mirabile Disegno, la fiera viene a coincidere con la vendemmia anticipata delle uve per il Franciacorta, che porta enormi quantità di ottimi raspi a regalare la loro ultima anima alcolica nei pressi del nostro parcheggio, deliziando parcheggiatori e parcheggianti con un vento inebriante nel corso di tutta la giornata.

Il parcheggiamento prosegue impavido per tutta la giornata. Una pausa viene fatta all’ora di pranzo, quando i pastafariani e i volontari di Karibu Afrika si incontrano per celebrare il Rito della Pasta presso una casa amica. Qui vengono servite dalle pulzelle del luogo ingenti quantità di vettovaglie ad alto contenuto di carboidrati, accompagnate da una adeguata dose di bevande alcoliche. Volontari e pirati danno dimostrazione di grande apprezzamento anche senza parlare.

Tornati quindi al proprio posto, si riprende ad accompagnare gli amici cacciatori nelle loro elaborate manovre di parcheggio, con la complicazione dell’ebbrezza di entrambi. I più arriveranno solo più tardi, dopo aver compiuto la rituale pennichella sul divano col televisore sul Gran Premio di Monza.

 Due parcheggiatori a riposo, orgogliosi di aver fatto sistemato in un posto privilegiato una Vespa pastafariana

 

Dopo anni ad aiutare tali personaggi a parcheggiare il loro veicolo, si possono iniziare ad azzardare dati statistici estemporanei. Il più evidente è quello che differenzia il cacciatore con moglie, di cattivo umore e quindi pronto alla contestazione dell’offerta, rispetto alla generosità del gruppo ridanciano e goliardico di amici cacciatori, che all’atto della questua fanno a gara ad estrarre dal portafoglio quante più monete possibile da porgere alle nostre pulzelle addette alla cassa, in una gara di generosità che non può fare che bene ai nostri fratelli keniani.

Il parco macchine pure è abbastanza particolare. Dai cacciatori ci si aspettano mezzi rustici e provati dagli aspri sentieri di montagna. Ma per quello che si vede, anche loro non sono immuni al fascino salottiero del SUV, che infestano abbondantemente il nostro parcheggio come qualsiasi altro parcheggio di supermercato. Cambiano solo le modalità: al supermercato o la bionda guidatrice cerca parcheggio fino a riuscire a trovarne due o tre liberi vicini, parcheggiandoci di traverso, oppure, più previdente, si porta il marito, lasciandolo con l’aria condizionata e il motore acceso sotto allo scivolo dei disabili. Qui invece sono i mariti a guidare le loro potenti autovetture dai finestrini anneriti, ed il nostro compito è quello di impedire loro di correggere la geometria delle altre vetture con i loro paraurti antibufalo.

Non riesco a capire quale sia l’utilità di un’automobile grossa come un pulmino della SIA in un sentiero di montagna. Mi verrebbe da chiederlo a qualcuno di loro, ma non vorrei mai urtare la sensibilità di un uomo abituato ad usare un fucile, facendogli una domanda che potrebbe giudicare come indiscreta.

Due dei nostri più valenti pirati del parcheggio, fieri di aver ricevuto una generosa offerta dal guidatore del SUV grigio sulla destra

 

Al parcheggio però non girano tutti con dei monolocali su ruote. Molta gente ha automobili normali, di quelle che si vedono normalmente sulle normali strade italiane. Da queste automobili scendono insospettabili gruppi di giovani, anche con morosa al seguito o addirittura padri di famiglia con mogli e passeggini pieni di adorabili bambini, felici come una pasqua perché già il loro pensiero va  all’imminente palloncino del cartone animato di turno. tutti questi campioni di normalità non hanno l’aria di cacciatori, ma non si può mai sapere che segreti nasconda una persona.

I veri cacciatori si muovono in branchi, come se andare alla loro fiera non è altro che il preambolo di una serie di fortunate battute di caccia grossa. Quelli che non hanno il SUV sono i più seri, perché li vedi scendere in quattro o cinque da delle Panda 4×4 verde palude, appena impacciati dagli ingombranti girovita coltivati negli anni. La prova costume è d’obbligo, forse per distinguersi dai profani che frequentano la fiera solo per rimpiazzare il criceto preso l’anno prima. La stagione 2012/2013 predilige capi dai toni kaki o verde militare, meglio se maculati. Su tutti spiccano i pantaloni con le tascone sulle cosce, il gilet e il bettettino. Quest’ultimo particolarmente importante: anche se contrariamente ai primi due non è fornito di tasche, la sua presenza impedisce il riverbero del sole sulla calvizie a cui pennuti e selvaggina si sono da tempo abituati a prestare molta attenzione.

Quello che mi stupisce sempre è come questo popolo dei boschi, temperato da anni di dure escursioni appesantite da armi, munizioni e prede mastodontiche, quando si ritrova alla fiera debba chiedere ogni volta se non c’è un posto più vicino di quello distante almeno trenta metri dall’uscita del parcheggio. E che poi debba sempre seguire l’interrogatorio su quale sia delle due la strada più breve per entrare alla fiera. Tipo che una dista centoventi metri e l’altra centoquaranta, e per di più con una lieve salita. Dopo aver dubitato più volte delle risposte divertite del parcheggiatore, finalmente si decide a prendere una delle due strade. Covando però ancora il germe del dubbio: mai fidarsi di uno senza cartucciera a tracolla: potrebbe essere una spia di Licia Colò, o addirittura un verde!

Intorno alle sei di sera i veri cacciatori se ne sono andati da un pezzo. Rimane il popolo dei curiosiche vogliono entrare gratis, o magari di quelli che vogliono prendersi un qualche animale da compagnia, destinandolo ad un futuro più monotono e adiposo rispetto ai loro fratelli comprati la mattina. Quando ormai passano cinque minuti tra una macchina e l’altra anche noi decidiamo di levare le tende. Con quel po’ di tristezza che rimane al pensiero che questo spazio comunale è già da tempo stato venduto al solito edile di turno, che non vede l’ora che siano pronte le carte per poterci costruire l’ennesimo abuso edilizio legalizzato. Ogni volta che ce ne andiamo pensiamo che potrebbe essere l’ultima volta che possiamo aiutare i nostri amici dell’Africa con questa bella giornata di festa.

Hasta la pasta dal devoto Alberto.